SLEEP: JERUSALEM
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21/10/2007Con l’esordio degli Sleep intitolato 'Volume One', nel 1991, si incomincia a parlare di “stoner”, proprio per la loro attitudine al consumo di droga, e al fare della loro musica una vera e propria soundtrack per stupefacenti viaggi nel mondo della marijuana. Poi il loro esperimento continua, in una particolarissima e personale interpretazione del doom, studiata e calibrata proprio per sconvolgere l’ascoltatore, infatti 'Holy Mountain' nel 1993 apre nuovi scenari nebbiosi e acidi alla loro musica, ancora purtroppo eccessivamente grezza e bloccata da una produzione non degna. Dopo cinque anni, e dopo peripezie dovute al rifiuto della Polygram di pubblicare il disco, finalmente viene dato alla luce 'Jerusalem', dalla coraggiosa Rise Above (etichetta di riferimento per i cultori dello stoner e del doom), ossia un album monotraccia di 52 minuti, una cosa indigeribile e incomprensibile da lucidi, quindi difficilmente spiegabile o comunicabile se non come una lunga e sabbiosa liturgia doom al limite, ossia il doom che si spinge oltre qualsiasi barriera mai affrontata dal genere, in un lungo cammino visionario, ampiamente descritto nel testo onirico e colorito, nella Terra Santa, dove diverse religioni, diverse spiritualità, diversi modi di trascendere la realtà si incontrano, dove i popoli lasciano che il loro oppio li conduca verso terre che superano la banalità e la finitudine della realtà, e si gettano nella magia e nell’incanto di un’ora scarsa di visioni, suggestioni, dove stonarsi, nausearsi e magari, infine, ritrovarsi. Ogni cosa, nel testo, nelle sensazioni che si provano, nella poetica della band, verte attorno alla droga, un vero e proprio culto della marijuana, con un credo, sacerdoti ed apposite chiese e templi dove coltivarla, e scenari naturali spettacolari dove consumarla. Musicalmente siamo vicini agli Earth pre-drone, solo in una salsa molto più metallica che vede la presenza di momenti di musica condensata, lentissima, inesorabilmente ripetitiva e martoriante, ma anche momenti in cui tutto questo si disfa nella vibrazione pura e claustrofobica. La spiritualità di Matt Pike, il leggendario chitarrista tra i più fieramente grezzi della storia, si dispiega nei suoi riff infiniti come montagne che si perdono tra le nubi; la sua ferocia viene fuori nei suoi lunghi e crespi solismi che sono tra il disturbante e il nevrotico; Al Cisneros, invece, declama elegie del bong (raffigurato all’interno e all’esterno dell’artwork), vomitando catrame a tutta forza, e col suo basso innalza droni dolorosi e gusci marmorei impenetrabili per quanto sono saturi di elettricità. Chris Hakius, dietro le pelli, scandisce tempi che sanno di cerimoniale religioso o di carovana di pellegrini, e se a volte conosce l’abile arte dell’affondo impietoso, sa anche contenersi per dare spazio alla vibrazione che dilaga e trasforma la musica-spirito in rumore-materia e viceversa, come se questo 'Jerusalem' fosse una Pietà di Michelangelo resa attraverso la musica estrema, ossia un esempio di musica che prende forma innalzandosi dal rumore, immortalata non quando è ormai sgrassata e ripulita dalla materia che la avvolge, ma proprio quando vi si sta ancora districando, proprio quando, lentamente si innalza. Il produttore Billy Anderson valorizza l’aura nera degli Sleep e ne trae il loro senso ultimo, sottolineando le dilatazioni e raccogliendo tutte le sbavature in un quadro complessivo che vive e si nutre di tutto, anche e soprattutto dei particolari e delle deviazioni rumorose. N.B. Nel 2003 la Tee Pee ha ristampato con una copertina diversa il disco, ora intitolato 'Dopesmoker' aggiungendovi una traccia in più.
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