MANILLA ROAD: OPEN THE GATES
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23/02/2005Immenso. Questa è la prima parola, la prima sensazione che viene in mente pensando a questo poderoso bestione preistorico sotto le mentite spoglie di uno dei più bei dischi della storia dell'epic metal. Sì, perché fin dai primi secondi del disco ci sentiamo travolti da un assalto metallico barbarico e potente, ma soprattutto monolitico, impenetrabile, e come ogni buon disco epic che si rispetti, assolutamente magico ed evocativo. Un concept sulle saghe Arturiane, filtrato attraverso la particolare sensibilità di un Mark Shelton evidentemente sotto la benedizione degli Dèi, come sempre attento a suggestioni nordiche e pagane, si snoda attraverso canzoni che non perdono un colpo, perfette e grandiose sia nei momenti più rocciosi che in quelli più atmosferici. Questo incredibile livello artistico è il frutto di un approccio al genere come sempre senza scrupoli, diretto e feroce, realizzato appieno da una produzione volutamente grezza, della voce (priva di qualsiasi tecnica ma incredibilmente evocativa) dell'inconfondibile Shelton, e di un'esecuzione incredibilmente partecipe, con una batteria che per la prima volta nella storia dei Road ospita lo sbalorditivo Randy Foxe, un autentico cataclisma ritmico di inusitata e insospettabile fantasia, che definisce insieme alle sanguinose chitarre di Mark e al terremotante basso di Scott Park un sound compatto ed inimitabile. Sound compatto ed inimitabile che, come già detto, non è però né l'unico, né il migliore lato di questo capolavoro: "Open the Gates" è un'opera evocativa, magica, sentimentale ed intimista, un'opera che non perde mai di vista il fattore cardine dell'epic metal: l'emozione. Insomma, abbiamo davanti un nuovo poema epico scritto sul pentagramma, profondo e travolgente fin nel più profondo dell'animo oltre che sul lato più prettamente "fisico". Da un lato l'opener "Metalstorm" è uno di quei pezzi che potrebbero essere fatti ascoltare a chi vuole capire cosa sia l'epic metal: un ritmo travolgente e una furiosa cavalcata che esplodono in un eroico e solare ritornello, paragonabile all'altro inno "Road of Kings", che tutt'oggi può destare invidia anche ai Manowar; dal lato opposto, pezzi praticamente doom come "The Fires of Mars" e l'allucinata e visionaria "Witches Brew" riescono a mettere in luce il lato più prettamente oscuro che ha reso celebre (se di "celebre" si può parlare per un nome ancora underground) il trio del Kansas. E che si può dire di un brano come "The Ninth Wave"? Per chi vive un genere come questo fin nel profondo dell'anima, è difficile descrivere con parole umane cosa sono riusciti a creare i Manilla in questi 9 minuti di emozioni purissime e magiche visioni. Una melodia di chitarra sognante supportata da un drumming massiccio e tribale, su cui Mark canta di storie perdute dall'ineffabile incanto, e che fa da base per il serpeggiare di una serie di irresistibili assoli e di melodie a dir poco fantastiche… come dire, lo stato dell'arte dell'epic metal, e non solo, uno dei brani più belli mai composti in ambito heavy, in ogni tempo e paese. Nonostante quest'incredibile assortimento di hits (e non ho citato la stellare "Astronomica", l'anthemica "Hour of the Dragon, la ferocissima "Open the Gates"…), il disco è comunque un concept che funziona benissimo da sé, un'opera di quelle che difficilmente possono morire. Se desiderate deliziare le vostre orecchie provando quelle emozioni che poteva provare lo stesso Omero scrivendo le sue opere immortali, se volete fare un viaggio in mondo magico e perduto, non privandovi però del malsano di piacere di rimanere sanguignamente aggrappati a una cupa e spietata realtà di morte e dolore, se in poche parole volete sentire piovervi addosso tonnellate di epic metal di razza, di quello più vero e soprattutto bello, signori, il piatto è servito.
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