THE APPARATUS: HEATHEN AGENDA
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01/05/2005Giungono dalla famosa Trondheim, in Norvegia, i The Apparatus, sestetto a quanto pare piuttosto celebre in patria e che ha già avuto modo di farsi notare nelle gelide terre del Nord per aver supportato band del calibro di Mayhem e Vader. Nati nel 1999 e giunti all’agognato debutto discografico, il qui presente “Heathen Agenda”, dopo due demo, la band ci propone…ci propone un disco di black metal che eccelle nella sopraffina arte della scopiazzatura spudorata. Siamo davanti a brani articolati e lunghi, mai troppo melodico-ruffiani ma nemmeno estremamente ‘grim’ come potrebbe esserlo un disco qualsiasi dei Darkthrone. Riff dissonanti e melodie glaciali si sposano perfettamente con una voce a metà strada tra quella di Ishan e di Attila Csihar, nei confronti del quale viene sfiorato ripetutamente il plagio più becero. Lampante a tal proposito è “Travesty” (ma avrei potuto pescare anche uno qualsiasi dei brani di apertura): incipit composto da arpeggi dissonanti talmente banali che la mente del povero ascoltatore non ricorda se li ha già sentiti in un disco dei Satyricon, dei Darkthrone o degli ultimi Mayhem sui quali si staglia la voce di Vegard che tenta invano di seguire le orme del già citato Attila, con risultati più simili ad un temibile attacco di mal di stomaco che ad una degna performance canora. Un po’ mi dispiace dover sparare queste sentenze a fronte dei buoni spunti che affiorano come cadaveri di un naufragio nel corso di “Heathen Agenda”, ma nel momento stesso in cui ci si accorge come queste famigerate ‘buone idee’ non sono altro che copie-carbone da altri gruppi/dischi l’ignobile mascherata della band si rivela per ciò che è davvero. Gli unici brani che si salvano da questo pseudo-disastro sono la strumentale “Ballistic Bleach” (strumentale per modo di dire poi, visto che è composta per una buona metà da sample di varia origine) e la conclusiva “Worms”, di certo non il massimo dell’originalità ma il pezzo dove i The Apparatus mostrano un minimo di personalità e di capacità compositiva, c’è pure un assolo. Tutto il resto è come già detto un continuo ruba riff con batteria che escluso qualche numero di piatti discretamente valido rimane inchiodata sullo stessa identica ritmica all’infinito, con questa doppia cassa continua che dopo un po’ fa svanire l’effetto ‘muro’ trasformandolo in effetto ‘spengo lo stereo’. I The Apparatus sono il classico gruppo che, pubblicizzato a dovere, mi avrebbe attirato morbosamente quando avevo diciassette anni, periodo nel quale i rip-off non si contano, magari incentivati da un artwork accattivante come è guarda caso quello di “Heathen Agenda”. Adesso sono grande, non mi fottono più.
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