MOB RULES: AMONG THE GODS
data
13/05/2004I Mob Rules confermano con quest’uscita lo standard cui ci hanno abituato con I precedenti tre album: un Power altamente tecnico e molto melodico, godibile dagli appassionati del settore come dai profani, con variazioni stilistiche che potrebbero rimandare ai Grave Digger come ai Gamma Ray. Fedeli al proprio “progetto”, mantengono ancora quello che è stato da dieci anni, dalla fondazione del gruppo nel ’94, la loro benedizione e maledizione assieme: ed è il tecnicismo della band questo Achille, completo nel duplice aspetto contraddittorio dell’invulnerabilità del corpo e della mortale debolezza del tallone. Il maggior pregio e difetto della formazione teutonica, infatti, è che il gruppo è nato da provini volti a trovare i migliori musicisti allora disponibili sulla piazza tedesca, e questa scelta ha portato alla creazione di quattro album di ottima qualità, ma di basso spessore emotivo. “Among The Gods” è appunto l’ultimo di quattro album ben distinti, ciascuno diverso per linee melodiche ed ispirazioni stilistiche, ma anche fondamentalmente uguali per evocatività e capacità di coinvolgere l’ascoltatore. Certamente non s' intende dire con ciò che siano album-fotocopia, tutt’altro; semplicemente, sembra sempre che a Dirks e soci interessi suonare e comporre in maniera impeccabile, più che godere dell’approvazione di un pubblico coinvolto: come dire “meglio un applauso educato che un tifo da stadio”. Detto ciò, passiamo a dare un’occhiata alla tracklist. “Black Rain” ed “Hydrophobia” mostrano subito il lato più corale, la prima, ed il più speed, la seconda, della produzione del sestetto; nulla di che invece per quanto riguarda “Invitation Time”. Ci si riprende con l’ottima “Miracle Dancer”, in cui si mescolano atmosfere andine, ritmiche che vanno dal valzer al tribale, ed un chorus che spezza solennemente un bridge allegro e festoso: il risultato è forse il più bel pezzo dell’album, ed anche il più evocativo. Tocca poi alla title-track, un pezzo né carne né pesce, un po’ Mob Rules ed un po’ Helloween: unica segnalazione, la presenza nei cori di tale Ian Parry (Consortium Project) ed alla chitarra di un certo Roland Grapow (Masterplan). “New World Symphony”, brano di cui il gruppo pare essere entusiasta, è in realtà lo scivolone, una semplice versione sinfonica, bella ma priva di motivo, di quella scatenata “Rain Song” che da sola metteva in ombra tutto il resto del primo album. Si passa poi a “Ship Of Fools”, ibrido tra lo stile del gruppo e quello di Axel Rudi Pell (due generi ibridi che si ibridano a vicenda…), e la seguente “Seven Seas”, corale e maestosa, sembrerebbe poter chiudere i giochi. Ma così non è, ed i sei rilanciano con “Meet You In Heaven”, sorta di allegro Hard Rock, quasi una serenata felice e giocosa, per poi chiudere sul serio con “Arabia”. Come ipotizzabile fin dal titolo, qui a farla da padrone sono atmosfere orientaleggianti, per un pezzo imponente che risolleva di parecchio le sorti dell’album, soprattutto tra bridge e chorus che finalmente mostrano un’impressionante evocatività. L’impressione è quasi quella, dolce e struggente, di vedere un miraggio, persi nel deserto. Da sottolineare infine il formato di uscita. Saranno infatti disponibili due formati: uno “normale”, ed un’edizione limitata con un bonus cd su cui saranno presenti un video, una traccia inedita, una estratta dai demo-archives della band, ed una cover dei Savatage, ed inoltre un’intervista col gruppo.
Commenti