CATHEDRAL: THE ETHEREAL MIRROR
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12/10/2007'Forest Of Equilibrium' nel 1991 ha segnato un momento storico: la massima espansione e l’ultimo capolavoro del doom metal classicamente inteso. Nel 1993 'The Ethereal Mirror' compie il passo avanti definitivo, con una manciata di brani pietre miliari dello stoner doom. Il passo avanti è forse solo un passo indietro o semplicemente uno sguardo verso i seventies, visto che in quest’opera siamo in presenza di quella poetica tutta anni novanta che tendeva ad unire metal e hard rock (manifestatasi anche in modo molto diverso in capolavori assoluti come 'Wolverine Blues' degli Entombed ed 'Elegy' degli Amorphis). Il blues per il sole rosso dei Kyuss riscalda gli scenari gelidi dei primi Cathedral, praticamente estirpati dal loro background metal estremo e successivamente doom e gettati in un mondo fatto di figure rocciose ma allo stesso tempo vive, quasi spiritate, come quelle affollano lo splendido artwork (a cura del solito Dave Patchett). Si aprono così nuovi orizzonti ai Cathedral, dove si attinge direttamente dagli anni settanta, dai Black Sabbath, dai Pentagram, ma la loro reinterpretazione va oltre l’elogio alla lentezza, oltre i riff ripetitivi e dilatati (anche se "Phantasmagoria" è un macigno tra i più duri e pesanti di tutta la storia), ma sviluppa un’anima grezza e frivola, fuori dagli schemi, lasciando prevalere il gusto del ritmo(più vario e più spregiudicato, anche nell’accelerare) e della progressione libera, per un risultato quasi impensabile solo due anni prima: il suono è magnetico, coinvolgente, tremendamente groovy, le chitarre di Jennings e Lehan sono incrociate alla grande, con un gusto tutto stradaiolo e con una marcata live attitude (quella dell’acid blues e del fuzz rock), le parti solistiche sono vorticose, e coniugano alla melodia anche dinamicità e brio. Un capolavoro doom che si distanzia da tutti i luoghi comuni del genere, con deflagrazioni ritmiche improvvise ad opera di un Wharton notevolmente maturato (vedi "Midnight Mountine"), inserti acustici (tra le altre, nella strepitosa Fountain Of Innocence"), momenti melodici; inoltre le visionarie parti vocali di Lee Dorrian sono sempre più pulite (salvo nella maligna "Jaded Entity", consigliabile a chi preferisce le cose fatte nella vecchia maniera, non senza qualche sorpresa, come un po in tutti i pezzi del disco) ma anche più varie (a volte persino effettate) e guadagnano in personalità ed interpretazione. La produzione è nitida ma rude, proprio per conferire alla band, su disco, l’impatto di un live. Non un album neo hippy, non un album metal in senso stretto, ma un’opera ambiziosa, che pretende di coprire e sradicare col suo vortice violaceo, un quarto di secolo di musica pesante e di elaborare una forma nuova che oltre a diventare un punto di riferimento per tutta la scena, sarà anche una delle cose più vicini alla mia idea di perfezione in ambito musicale.
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