WALSH, STEVE: SHADOWMAN
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08/07/2005Mastro Steve Walsh ritorna con un album solista che conferma e rilancia quanto di buono si possa dire e scrivere sul singer storico dei Kansas. Un disco personale, frutto esclusivo della creatività e distante, assai distante da tutto quanto concerne la musica moderna sia in fatto di trend, sia riguardo a rimandi al passato: "Shadowman" guarda lontano, al futuro. Non è nostalgico, non è statico, non è attuale. E se si pensa che dietro questi cinquanta minuti di musica c'è un mastermind ultracinquantenne, allora ti viene da star male paragonandolo agli imbolsiti giovinastri che si ripetono disco dopo disco plagiando se stessi. Certo, Steve non ha nulla da perdere se si tiene conto del suo passato e della popolarità, ma qui niente è gratutito e riempitivo. E un passo del genere, considerati questi tempi assassini che ti seppelliscono o di idolatrano nel giro di due song che si susseguono sullo stesso disco, è la dimostrazione che osare non è solo saper fare qualcosa di diverso o totalmente fuori da ogni concezione musicale canonica(alla fine, impegnandosi, lavorando a tavolino e davanti ad un computer quasi tutti sarebbero in grado costruire strutture intorno a frattali e varie altre funzioni geometriche o matematiche molto in voga negli ultimi anni tra i super nerd elitari che chiamano "Musica" anche qualsiasi merda che sia "disordine orgnaizzato"), ma farlo tenendo sempre in mente la forma canzone, il fine ultimo di uno sforzo compositivo, quello più difficile. Cosa che a Steve riusce con una naturalezza disarmante. Ed allora vai con il rock, col metal, col progressive, con il pop, con l'elettronica e scampoli di dance che si alternano in strutture libere e melodiche in un "chaos" armonico tenuto ben saldo dalla voce roca e stridula di Walsh che ha riacquistato potenza dopo le ultime trascorse scialbe prove in studio. L'unico aggancio con i Kansas lo si può trovare in "After"(dove David Ragsdale "presta" il suo violino), ma sono dieci minuti tempestati da ogni genere di clima che imperversano all'occorrenza, non in scaletta previsti in quei determianti punti del brano. Forse solo le così chiamate "giga symphony" di Michael Romeo hanno un non so che di forzato, incastrate nelle strutture con piccole martellate piuttosto che in scioltezza, ma è l'unico appunto "contro" che mi sento di muovere ad un lavoro coraggioso, creativo, avanti e che sa essere anche e soprattutto ascoltabile ed assimilabile già dopo pochi ascolti.
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