SYRACH: DAYS OF THE WRATH
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17/11/2007Fuoco e fiamme, demoni, dolore, distruzione. Scenari apocalittici quelli del ritorno dei norvegesi Syrach sulle scene, con una prova esemplare intitolata 'Days Of The Wrath', che è una conferma e un punto di arrivo per una band con alle spalle una gavetta di quasi quindici anni, una storia difficile e piena di tutte quelle difficoltà che si hanno per affermarsi in una scena selettiva e povera, come quella doom. I primi demo, il debutto nel 1996, con 'Silent Seas', poi dopo una serie di alterne fortune e sfortune, e con una line-up rinnovata, finalmente è giunto il tempo di raccogliere quanto seminato; così la band mette in piedi un arsenale feroce e potente, materiale che scotta, sin dalla copertina, realizzata da Aaron Stainthorpe dei My Dying Bride, dove è il fuoco a fare da padrone, così come nel contenuto, che verte attorno all’idea di decadenza e morte (ma va?). Di negativo c’è che non ci si sposta dai canoni consolidati del doom metal, né a livello di temi né a livello di proposta musicale, ed è questa la chiave di volta di qualsiasi argomentazione dei detrattori del disco, oggettivamente ineccepibile sotto un punto di vista strettamente tecnico-compositivo. Il filone seguito è tra My Dying Bride, Paradise Lost, certe atmosfere umide e crepuscolari dei Candlemass e le tentazioni sinfoniche dei Green Carnation nella prima formazione. Non si sfugge: non c’è spazio ne per sperimentalismi ne per sostanziali variazioni. Tuttavia è impossibile non sottolineare i pregi della formula dei Syrach: un doom metal canonico e freddo ma non irremovibile, al contrario, pieno zeppo di influenze death (molto più che in influenze, a dire il vero, in pezzi già in partenza tutti imperniati sull’impatto devastante, come "Sempre Ardens"), che donano quel tocco di dinamismo, con non pochi richiami agli Opeth, se non altro per il ricorso ai cambi di tempo, per rendere anche meno gravoso lo strabiliante lavoro sugli arrangiamenti, non di certo tra quelli più facili da assorbire, ma tutti ben calibrati, mai troppo tecnici anche se comunque dotati di un alto tasso di complessità, e grandi melodie, con parti solistiche raffinate e coinvolgenti, molto classiche e curate in tutti i dettagli, abbondanti, prolisse ma soprattutto calzanti, episodio per episodio, con lo spirito del brano; talvolta c’è qualche esito sottilmente atmosferico ("Are You Able To Breath Fire?"), talvolta con sfumature gotiche, e per questo si veda la cangiante "The Twilight Enigma", una stupenda prova di lirismo oscuro e allo stesso tempo passionale, e fa molto la presenza della vocalist Silje Wergenald (degli Octavia Sperati) che grazie ai suoi duetti (rari ma messi al posto giusto) inserisce sfumature tenui e un cantato pulito che da tutta quella profondità che occorre per fare un grande disco che sia non solo duro, pesante e ben suonato, ma anche il più possibile coinvolgente. Pregevole anche la produzione, affidata a Herbrand Larsen degli Enslaved, nitidissima e non troppo cavernosa, ne pretenziosamente ricalcante i trend del mercato attuale, anche se chiaramente moderna e tendente a rendere il prodotto ampiamente godibile. Una manciata di grandi pezzi, di cui almeno uno, la drammatica suite funerea intitolata "The Firm Grip Of Death", quindici minuti interessanti e leggeri, come raramente accade per pezzi così lunghi e che, nella fattispecie, riescono a tenere testa all’ascoltatore, sorprendendolo, divertendolo e stimolandone l’interesse, conservando però sia il filo conduttore del brano, sempre identico e coerente con se stesso e con quella idea di fondo, di musica monolitica, compattissima e soffocante.
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