PERPETUAL FIRE: ENDLESS WORLD
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17/04/2006Il campo di battaglia dei Perpetual Fire è l'affollatissimo panorama delle band Power al confine tra barocco e sinfonico: praticamente l'uscita dell'autostrada a Milano all'ora di cena. Bel pelo sullo stomaco, per scegliersi uno sei campi più in voga degli ultimi anni! Cosa dovrebbe rappresentare un punto di forza per loro, visto che, per arrivare al pubblico, bisogna avere qualcosa di personale che distingua dagli altri? Non è chiarissimo: lo stile che emerge da questo "Endless World" non riserva sorprese sconvolgenti, e verrebbe quasi la tentazione di sostenere che di interessante non ci sia nulla. Ma non è così: innanzitutto, la band propone sì una musica figlia di Stratovarius in primis, e band più symphonic-oriented a seguire, ma lo fa con una notevole capacità interpretative che consente di arrivare, se non ad una personalizzazione totale del genere, quanto meno a fornire un'impronta identificatoria che un minimo si discosti dal resto della massa. Prima fonte di stupore, Steve Volta se ne sta al suo posto: chitarrista estremamente valido, nelle sue esperienze musicali precedenti si lasciava spesso andare a divagazioni simil-malmsteeniane che, per quanto estremamente valide da un punto di vista puramente tecnico, risultavano purtroppo un drastico taglio all'uniformità dei pezzi. In questo caso, invece, troviamo un Volta perfettamente amalgamato al resto della band, non eccessivo, eppur in grado di inserire delle brevi divagazioni qua e là a ricordare le sue capacità. Per il resto della band, Ria si conferma un batterista capace e potente, in grado di rendere d'impatto un brano già di per sè valido; di Zampetti si può invece dire che non emerge. Per quanto sia comune che il basso rimanga nelle retrovie, non è la cosa più positiva di questo mondo: certo il suo lavoro lo fa, e pure bene, ma manca quel non so che di caratterizzante. E veniamo così a Beccalli. Buon vocalist, dalla discreta estensione, pecca un poco su due dettagli: un'impostazione un po' troppo da Power Melodico, che non gli rende giustizia sui passaggi più incalzanti, ed un'estrema incostanza nella pronuncia dell'inglese, che oscilla spesso e volentieri tra un'accettabilissimo accento tipicamente italiano (e va bene, nessuno chiede il bilinguismo perfetto, che peraltro non esiste), e punte di imbarazzante italianizzazione. Nel complesso, comunque, ottimo lavoro.
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