MANOWAR: SIGN OF THE HAMMER
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15/03/2005Era difficile creare un disco che fosse all'altezza dei due capolavori precedenti. Ma i Manowar negli eighties, in materia epic, avevano ben pochi rivali, e dunque la sfida è stata portata a termine con un buon successo. Se infatti Sign of the Hammer non raggiunge i livelli epocali dei predecessori, rimane comunque un disco di caratura eccelsa, in grado di coniugare il passato monolitico della band con una sensibilità melodica spesso di nuova concezione, senza far rimpiangere la vecchia gloria e regalandoci piacevoli sorprese. E infatti, come in Into Glory Ride, l'apertura è affidata a un brano decisamente atipico, quella "All men Play on Ten" che può rimandare a certo hard rock americano d'annata ed è un sincero tributo alla Ten Records, casa che si è sobbarcata il pesante carico di una band senza compromesso alcuno con i Manowar (e che verrà puntualmente abbandonata dopo questo disco fra l'altro). "Animals", poi, è un altro pezzo di puro rock'n'roll, ma riuscito e coinvolgente come non mai, con un giro di chitarra ruffiano e un'attitudine caciarona e d'impatto che può rimandere persino ai Motorhead per lo spirito scanzonato e allegrotto. Dopodichè, l'esplosione. "Thor (the Powerhead)", uno dei brani simbolo della band, apre le danze per quello che è un nuovo capolavoro di epic metal purosangue, imponente e travolgente. Il sound non è mai stato così metallico e barbarico, si riunisce il ruvido feeling di Into Glory Ride con la possente aggressione metallica di Hail to England. Anche musicalmente il disco è una via di mezzo tra questi due dischi: l'epicissima e travolgente "Sign of the Hammer", forte di uno dei refrain più belli mai composti dai nostri, è un vero manifesto di metallo epico e belligerante che mostra ben poca pietà verso i nemici, mentre la magnifica "Mountains" è un viaggio silenzioso e mistico nel nostro animo, guidato da arpeggi delicati e soffusi e da ritornelli imponenti come le montagne di cui Eric canta la gloria. Fra l'altro questo è uno dei testi più belli mai composti dai Manowar. La conclusiva "Guyana" è poi un altro episodio da urlo, con il suo incedere pachidermico e doomeggiante, perfetta nel raccontare la ben nota tragedia del "Reverendo Jim" e del suicidio di massa della sua setta con momenti di pura disperazione corale. Un disco, "Sign of the Hammer", che non si limita quindi a seguire le orme dei suoi insuperabili predecessori, ma mette nuova carne al fuoco, rimescolando le idee già avute dalla band con una nuova sensibilità che mette in mostra un gusto melodico sempre maggiore, capace di forgiare ritornelli letteralmente indimenticabili, che uniti a canzoni massiccie e di impatto emotivo incontestabile riescono a travolgerci con una carica assolutamente irresistibile. Insomma, i Manowar portano avanti il loro discorso verso lidi più melodici e accattivanti, senza perdere di vista il loro epos genuino e monumentale. Notevole come una band del loro calibro sia riuscita fin qui a innovarsi costantemente (checchè ne dicano i detrattori) e a trovare ogni volta una formula giusta e coinvolgente. E peccato che questo Sign of the Hammer sarà l'ultima testimonianza del periodo in cui la band si cimentava col puro epic metal… d'altronde era difficile dire qualcosa di più di quanto già detto con questi quattro fantastici primi dischi, ed è normale che le band si evolvano, ma mai più nessuno è riuscito a far impallidire la gloria di questi quattro invincibili guerrieri che hanno giustamente conquistato il loro status di "intoccabili". Sign of the Hammer, be my guide!
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