ANGRA: Temple Of Shadows
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19/11/2004Angra. Ovvero due capolavori ("Angels Cry" e "Holy Land"), un album riuscito a metà ("Fireworks") e un disco poco coraggioso ma comunque piacevole ("Rebirth"), in seguito al burrascoso split con Matos & co. Inutile dire che la curiosità per questo "Temple Of Shadows" era davvero tanta. Prima però di passare all'analisi dell'album, servono alcune precisazioni: 1) Edu Falaschi è un buon cantante. Solo che per motivi ignoti, in quest'album ha deciso di imitare Matos. Il problema è che imitare Matos non è affatto semplice, e infatti il risultato è un ibrido (malriuscito) tra alcune tonalità dell'attuale singer degli Shaman e Tobias Sammet (!). Le poche volte che Falaschi canta con la SUA voce, i risultati sono nettamente migliori. 2) Agli attuali Angra, Matos manca tantissimo. Non tanto come cantante, quanto a livello di songwriting, arrangiamenti e orchestrazioni. In queste cose lui era unico, e rimpiazzarlo è davvero un problema. Fatte queste premesse, passiamo ora alle tredici tracce che compongono il cd. Si parte con un intro abbastanza breve, originale e gradevole, che lascia subito spazio alla potentissima "Spread Your Fire". Peccato che il brano in questione non abbia nient'altro che la potenza, dalla sua parte; banali le linee melodiche, banalissimi gli arrangiamenti. Sembra di sentire un pezzo scritto da una band alle prime armi. Francamente, da Loureiro e Bittencourt è doveroso aspettarsi di più. Le cose non migliorano molto neanche con "Angels And Demons", che pur offrendo spunti un po' più originali, resta comunque ben al di sotto dello standard al quale gli Angra ci avevano abituato. Dopo questi due colpi duri da digerire, finalmente il livello si alza con la successiva "Waiting Silence", che fin dall'attacco lascia intuire che stavolta i cinque brasiliani hanno fatto centro. Ritmo incalzante, melodie trascinanti, insomma un ottimo brano. Quasi non credo alle mie orecchie quando parte "Wishing Well"... la prima impressione è quella di essere davanti a un capolavoro. Ascolto, ascolto, riascolto... confermo. E' un capolavoro, siamo sui livelli "magici" di "Holy Land". Un pezzo bellissimo, emozionante, che sprizza vita da tutti i pori, una semi-ballad davvero superiore. A questo punto sono più tranquillo, dopo due brani così inizio a pensare positivo. E invece arriva la mazzata. "Temple Of Hate" ripiomba senza preavviso nella banalità più tremenda, e la presenza di Kay Hansen non serve a risollevare il brano, anzi. Peccato, perchè un ospite del genere poteva essere sfruttato meglio... Per fortuna la lunga e complessa "The Shadow Hunter" offre degli ottimi passaggi strumentali e vocali, non è il pezzo migliore del disco ma quantomeno è originale e coinvolgente, e consente ai musicisti di mettere in luce le proprie indubbie capacità tecniche. La successiva "No Pain For The Dead", con le sue chitarre acustiche e le sue atmosfere davvero toccanti, entra diretta nel cuore, grazie anche alla bellissima voce di Sabine Edelsbacher degli Edenbridge, autrice di una prova davvero convincente; grandissima canzone. Ma la lista degli ospiti non finisce qui... infatti dopo un attacco violentissimo ecco irrompere sulla scena nientemeno che Hansi Kursch. Il tedesco sforna una prova da 10 e lode, duettando splendidamente con un Falaschi finalmente personale nell'interpretazione. Con queste premesse, "Wings Of Destination" non può che essere un'ottimo brano... e infatti così è. Purtroppo però sarà anche l'ultimo brano degno di nota del cd. Infatti con "Sprouts Of Time" gli Angra attingono a piene mani dalle sonorità di "Holy Land", ma il pezzo non decolla proprio, un po' perchè la linea melodica non è delle più riuscite, un po' perchè l'imitazione di Matos da parte di Falaschi qui sfiora il grottesco. La successiva "Morning Star" è il classico riempitivo, un brano che scivola via senza lasciare traccia, e ci porta sino a "Late Redemption", per la quale vale la pena di spendere qualche parola. E' un brano lento e semiacustico, con parti cantate in portoghese. L'idea non sarebbe malvagia, ma la monotonia delle strofe e la piattezza del ritornello non le rendono giustizia. Un'altra occasione buttata. La chiusura è affidata a "Gate XIII", strumentale simil-classico-cinematografica senza nè capo nè coda. L'ho ascoltata e riascoltata per puro dovere di cronaca, chiedendomi che senso avesse inserire un pezzo del genere. Scrivere pezzi classici non è cosa per tutti, e se non si è in grado, è meglio lasciar perdere. Resta l'amaro in bocca, la sensazione che gli Angra potevano fare molto più di così.
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