JOHN ZORN: New Masada Quartet
Vedere il Jazz. Torino Jazz Festival 2024. Un festival oltre le categorie dove le persone si ritrovano nel nome di una musica (il jazz), musica nata per celebrare una comunità libera. Auditorium G. Agnelli, 28 aprile 2024. John Zorn & New Masada Quartet. Zorn va per i settantuno. Musicista, compositore e produttore, un’istituzione nella musica americana, collaborazioni con i Naked City, musiche per film, e una produzione discografica dal 1978. Dal jazz all’improvvisazione radicale, dal punk hardcore al doom metal, dal Klezmer al lounge, dalla classica alla contemporanea, free jazz, miscelato con venature ebraiche (le sue origini) e sempre uno sguardo verso le avanguardie del Novecento, ma soprattutto le avanguardie di sé stesso. Torna in Italia con il suo recente ensemble, il New Masada Quartet. Lo accompagna il contrabbasso di Jorge Roeder (versatile e riconoscente alle sue origini ritmiche afro-peruviane), la chitarra elettrica, emergente e accattivante di Julian Lage (37 anni, talentuoso compositore jazz), la veterana batteria di Kenny Wollesen, suo collaboratore da oltre trent’anni (Tom Waits, Norah Jones, etc.). Durata: 1 ora e 10 minuti. Che esperienza emozionante e di insegnamento! Posti numerati e lontani dal palco (i biglietti sono andati a ruba in poco tempo; chissà quali smorfie avrei potuto percepire a pochi metri di distanza). Costo: 20 euro.
Ci troviamo nel tempio della musica (ex fabbrica, stabilimento Fiat) progettato nel 1994 dall’architetto Renzo Piano e dall’ingegnere acustico Helmut Müller; un luogo isolato, interrato (dove neppure il cellulare prende). Si noi lontani, ma la figura corporea di John Zorn risulta leggibile anche dalla mia fila (per i suoi movimenti corporei). Zorn si presenta come un musicista molto geloso del suo strumento (l’unico non lasciato sul palco attrezzato, prima dell’inizio dello spettacolo) e lo dimostra anche prima del bis finale (si allontana sempre in sua compagnia). Ma soprattutto si mostra come un maestro d’orchestra. Il quartetto prende le postazioni sul palco (una forma quasi circolare), contrabbasso e batteria rivolti verso il pubblico, chitarra (con sedia a seguito) su un fianco e lui di spalle al pubblico. Alza una gamba in alcuni fraseggi, sembra un’anatra impazzita. E mentre suona, con la mano destra, raccoglie il silenzio o richiama l’attenzione dei musicisti, che vuole far intervenire; decide lui chi deve duettare, l’uno con l’altro, usa segni di incitamento (a creare il bordello), e segni di svuotamento. Il linguaggio del jazz (al contrario di come immaginavo) non è celato in questa occasione! Il contrabbassista era forse l’unico che viaggiava più in autonomia, mentre batterista e chitarrista, erano completamente dipendenti e indipendenti da Zorn (interplay al massimo livello). Il suo è un sax impazzito, che crea dei suoni anomali per lui stesso (come strumento). Tra i silenzi, gli spazi, i vuoti, i lamenti, le rincorse, i rallentamenti, ho avuto la percezione che tutti, almeno una volta nella vita, dovrebbero vedere quella “libertà, che vagava nell’auditorium”. Per me è stata un’occasione per aprire lo sguardo a realtà nuove, e posso assicurare che dal vivo non è la stessa cosa che ascoltare un album (mi ero preparata all’ascolto). L’esperienza live è molto più diretta, ti rapisce, ti isola, ti avvicina e ti allontana. Emozioni che ti ribaltano lo stomaco. Ti aiuta a comprendere ed accogliere te stesso e gli altri. Un ascolto serio ti obbliga a riconoscere gli altri ed entrare in relazione con loro.
Provate ad immaginarvi in una stanza, come spettatori, dove i protagonisti sono un “branco di bambini”, liberi di giocare, stramazzare di risate, piangere e chiudersi in sé stessi. Se non rimanete indifferenti alla loro presenza, allora credo che potreste dire “di aver visto il jazz dal vivo”! Perché bambini? Perché sono in grado di creare, senza sovrastrutture. Perché branco? Perché si armonizzano tra loro, anche se di specie differenti. Pertanto, in una tale situazione, potresti comprendere il jazz: 1) attraverso la percezione visiva del corpo del musicista, 2) sonora, attraverso il suo linguaggio musicale fatto di tensioni, pause, risoluzioni, e 3) concludere nel vedere coinvolto ed investito il tuo corpo, nelle trame dell’improvvisazione (quante testoline davanti a me si dondolavano). A distanza di giorni ricordo la mia espressione al vortice della velocità ritmica di “Mibi”, al timido nuovo blues che ho percepito in “Rahtiel”, e al “grazie” di tutto l’auditorium alla fine del concerto.
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