DREAM THEATER: Distance Over Time
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26/02/2019Finalmente, dopo lo scandalosamente noioso ed inascoltabile 'The Astonishing', i Dream Theater si riprendono e tirano fuori un album più che decente; e siamo franchi: era proprio ora. Se è vero che come gruppo sono sempre stati indulgenti, certo non potevano continuare sulla strada ultimamente percorsa. Troppo pretensiosa anche per loro. Di Hans Zimmer ne esiste solo uno, per dire. Nonostante abbia sempre amato Mangini come batterista, con i Dream Theater non ha mai combinato granché, impegnandosi più che altro a tenere il tempo. Considerando quanto tecnicamente sia eccelso, e quanto sia di gran lunga superiore a Portnoy, gli è sempre mancato qualcosa che lo facesse spiccare nel mezzo di quel tappeto sonoro. Tuttavia, 'in Distance Over Time' Mangini ha finalmente deciso (o hanno deciso gli altri di lasciarglielo fare...) di assumere il controllo del suo sound, e finalmente ha alzato il volume e tirato fuori le palle. E secondo me questo è stato l’elemento che ha salvato l’album e lo rende piuttosto godibile. In fatto di brani, i tre singoli fatti uscire in anteprima, "Untethered Angel", "Fall Into Light" e "Paralyzed" sono tipicamente canzoni dei Dream Theater, ma a mia modesta opinione non i migliori dato che risultano quelli più scontati e prevedibili. Una volta arrivati a "Barstool Warrior" e "Room 137", le cose cominciano a farsi interessanti. Comincia ad uscire la potenza nei riff di Petrucci e Mangini mette il turbo. Jordan Rudess finalmente si masturba di meno sulle tastiere, e per una volta nella sua vita le usa per rinvigorire la struttura musicale con eleganza e passaggi eterei. Chiudono l’album "Pale Blue Dot" e "Viper King", brani cerebralmente interessanti e piacevoli da ascoltare; cattiveria a sette corde ed incastri alla Meshuggah, ma con tastiere che ricordano i migliori Pagan’s Mind. In definitiva, decisamente l’album migliore dell’era Mangini. Il che non è affatto poco...
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