CIRITH UNGOL: KING OF THE DEAD
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11/01/2005Altisonante, e misterioso. Un titolo come "King Of The Dead" non può che suonare così. Nobile, maestoso, imponente... eppure maledetto, oscuro, quasi depravato nella sua innaturale necromanzia. Un po' come il magnifico artwork di Michael Whelan che adorna quest'opera: il prode Elric teso e pronto a scagliare colpo mortale a chi è già morto da secoli, eppure indossa ancora mantello e corona, un teschio spasticamente contorto in un'espressione di pura malvagità. Ecco perchè i Cirith Ungol non potevano scegliere titolo e copertina migliore per presentare al mondo il loro testamento più grande, la loro opera più riuscita, il loro vero capolavoro. Un heavy metal beffardo, liquidamente perverso fin nei suoi schemi più basilari, dove neanche i riff sono quello che sembrano, è la musica scelta dai Cirith Ungol per accompagnarci in questo meraviglioso viaggio fra le tenebre. Chi come loro ha saputo suonare l'heavy metal da una prospettiva così distante dai canoni del genere? Chi come loro ha portato avanti fieramente l'approccio libero e improvvisato dei seventies, persino con questa materia musicale selvaggia e potentissima, inequivocabilmente heavy metal in ogni singolo aspetto? La batteria di Rob Garven, capace di arricchire ogni strofa con deliri ritmici sempre inaspettati, il basso di Flint che si alterna tra ritmica e improvvisazione con una naturalezza che prende sempre alla sprovvista, o le distortissime, effetate e onnipresenti chitarre di Jerry Fogle, capaci di movimentare ogni riff con variazioni e divagazioni ora psichedeliche, ora blueseggianti, ora pesantemente sabbathiane, ora talmente uniche da non essere altrimenti etichettabili. E tutto questo senza neanche nominare la voce, il canto della banshee, l'insopportabile ululato di morte, le terrificanti strida di Tim Baker, profeta del Male capace con le sue disumane grida di fare da nocchiero sui fiumi infernali di questo roccioso e arcigno capolavoro, beffandosi di concetti che per i Cirith Ungol sono ormai desueti e trascurabili come le "linee vocali", la "melodia" e l'"intonazione". Questa prestazione strumentale così sconvolgente, quest'alchimia talmente improbabile da risultare unica, è il modo scelto dai nostri per portare avanti una composizione (che solo a fatica può essere scissa dall'esecuzione, vedi la delirante "Black Machine") estremamente pesante e debitrice ai Black Sabbath, ma tesa verso un feeling epico che in canzoni come "King Of The Dead" o "Master Of The Pit" ha dell'incredibile, per poi rivelarsi capace di introspezioni doom con la disperazione che ammorba "Finger Of Scorn" o l'indimenticabile title track, o sfoderare autentiche mazzate heavy d'alta scuola come "Death Of The Sun" o l'opener "Atom Smasher". Insomma, una band capace di fare di tutto e di più, persino rileggere la Toccata e Fuga di Bach con basso e chitarra, mantenendo l'inossidabile trademark epico e oscuro che ha fatto di loro un manipolo di autentici eroi capaci di sfidare l'Epic Metal in nome del loro stesso, prepotente, arrogante, seducente e mostruoso, Epic Metal. In molti si sono chiesti che senso abbia chiamare "Epic Metal" questa musica. In molti hanno fatto notare una sospettosa mancanza di momenti propriamente epici in questo disco. In molti ignorano quanto, effettivamente, possa essere epico un disco che ha come retroterra culturale non solo l'heroic fantasy, ma anche le ossessioni di H. P. Lovecraft, la musica classica, e una serie di orrorifiche profezie che annunciano l'inevitabile fine della stessa umanità. Ma se "epico" è per voi tutto ciò che vi fa respirare il profumo (o il fetore) della polvere dei secoli, se "epico" è per voi tutto ciò che nella sua grandezza monumentale sconfigge il Tempo, se "epico" non significa per voi "male" o "bene", se è quel sentimento disturbante e vibrante di grandezza, tensione e Fato che ha sempre animato gli artisti al suono della sua sola parola, fin dall'alba dei tempi, allora per voi questo disco sarà la parola definitiva sull'epicità in musica.
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