OBITUARY: SLOWLY WE ROT
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20/08/2004Tra i padri indiscussi dell'originario death metal, gli Obituary esordiscono nel 1989 con questo "Slowly We Rot" (un titolo, un programma), che vede Scott Burns in veste di produttore. I suoni sono quanto di più lercio e nauseante possa esistere, con le due chitarre che sembrano emergere e ruggire dagli abissi più oscuri, e l'accoppiata basso-batteria che guida in modo spietato l'assalto del quintetto floridiano; mentre al di sopra di tutto il resto regna sovrano il cantato inconenibilmente viscerale di John Tardy, marchio di fabbrica di una band che ha segnato come poche altre il sentiero death metal. La prima composizione, "Internal Bleedings" mette subito in evidenza quale sia la proposta del combo a stelle e strisce: un'intro funerea dai toni decisamente cupi è il più giusto preambolo per un brano che poi esplode in tutta la sua violenza mostrando un'accelerazione da togliere il fiato. Il registro non cambia di molto (e non cambierà, in verità, per tutto l'album) con la successiva "Godly Beings", in cui ai ritmi più incalzanti si alternano rallentamenti ossessivamente malsani con le chitarre che trascinano le proprie note in un grigio turbinio di memoria quasi sabbathiana. Da ricordare, inoltre, "Suffocation", brano tanto breve quanto intenso, ricco di cambi di tempo e di rocciose strutture ritmiche. Le tematiche affrontate al debutto sono un sunto del background culturale della band, composto in prevalenza da horror b-movie e visioni necro-apocalittiche: non sono un caso titoli come "Bloodsoaked" (uno dei pezzi dall'andamento più dinamico) o "Stinkupuss", per non parlare dello stesso titolo dell'album e della front cover, un affresco splatter quasi ridicolo. "Slowly We Rot" è il primo riuscito capitolo nato in casa Obituary, un'opera prima impulsiva e travolgente, che non verrà certo ricordata per l'alto grado di elaborazione delle composizioni, bensì per il loro caratteristico incedere marcescente e malato.
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