MANOWAR: THE TRIUMPH OF STEEL
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14/03/2004Il Trionfo dell'Acciaio, uscito nel 1992, anno certamente non buono per l'heavy metal che subiva l'invasione di grunge et similia, non è solo un nuovo potente assalto di furia metallica incurante del trend, da parte dei detentori del Sacro Verbo, è anche l'opera più ambiziosa mai concepita dai Manowar. Come altro definire un disco che si apre con una suite da 28 minuti e passa? E che vede i Manowar impegnati come non mai in un'esecuzione tecnica e precisissima? Sembra quasi che i nostri abbiano tentato, con questo disco, di porre rimedio alla stasi preoccupante manifestata da Kings of Metal… la ricetta era decisamente invitante, insomma, Triumph of Steel con queste premesse avrebbe potuto essere davvero un disco particolare e che avrebbe aperto nuovi orizzonti sul futuro della band… possiamo dire che l'ambizioso tentativo è riuscito soltanto in parte, purtroppo. Se infatti il disco può effettivamente contare su un'ottima varietà compositiva (si alternano l'epic imponente, episodi fullspeed di ferocia inaudita e momenti melodici e corali in maniera abbastanza sorprendente), non si può dire che tutti gli episodi siano ugualmente riusciti: la prima grande pecca del disco è proprio il suo alternare canzoni efficacissime e convincenti a momenti deludenti e insignificanti. Ci sarebbe poi da obiettare sulla scelta del sound, che sembra ancora più finto e artefatto di quello di "Kings", con chitarre in secondo piano e in generale fin troppo freddo e asettico. Un altro elemento di cui si sente la mancanza sono i solos: sì, Ross the Boss ha abbandonato la battaglia, e il suo sostituto David Shankle, pur tecnicamente dotato, è assolutamente anonimo e privo di qualsiasi mordente, con solos che non rimangono minimamente in testa e sono quanto di più brutto si trovi nel disco. Peccato davvero che il disco sia affetto da questi problemi, perché buone idee ce ne sono eccome: la pretenziosissima Achilles, suite incentrata sull'eroe omerico, nella sua prima metà sfoggia episodi di pura grandiosità: l'epos di "Hector Storms the Wall", la triste e sognante "Funeral March", e soprattutto la cinematografica ed evocativa "Hector's Final Hour" sono episodi di rara bellezza, purtroppo affossati dalle fullspeed songs conclusive, che non riescono a mantenere i livelli alti come in precedenza. Molto bella anche la velocissima e travolgente "Ride the Dragon", così come "Spirit Horse of the Cherokee". Scontate, ma comunque piacevoli, risultano "Metal Warriors" e "The Power of Thy Sword". Peccato dover ascoltare anche episodi ignominiosi come "Burning" e "Demon's Whip", assolutamente insignificanti se non addirittura sgradevoli. Fortunatamente, in chiusura, i Manowar tornano a dimostrare di che pasta sono fatti, con quella che senza timore definisco la ballad più bella di sempre: "Master of the Wind", più che una canzone una poesia. Le sue semplici note evocano una magia impareggiabile, commovente e accorata, come mai i Manowar sono riusciti a fare, con un Eric incredibilmente ispirato nel cantare il più bel testo mai scritto dalla band. Insomma, un vero e proprio capolavoro di ballad, che conclude in maniera decisamente sorprendente un disco incerto, buono nel complesso, ma davvero troppo altalenante per raggiungere le vette che in linea di principio avrebbe meritato. Probabilmente rimane il miglior episodio dei "nuovi" Manowar, ma non raggiunge minimamente i livelli toccati dalla band in precedenza.
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