IN FLAMES: REROUTE TO REMAIN
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10/06/2005Già dal titolo gli In Flames dimostrano di aver ormai capito tutto. Per sopravvivere bisogna evolversi, ampliare i propri orizzonti, dirottare l’attenzione verso qualcosa di nuovo senza risultare ridicoli o poco sinceri; poco sincero sarebbe stato continuare a fotocopiare “The Jester Race” o “Whoracle” (capolavori anche e soprattutto per la diversità dei contenuti tra loro e rispetto alle fatiche successive), e altrettanto poco sincero sarebbe stato reinventarsi completamente da capo, un passo che richiede coraggio, sfrontatezza e che riesce ad una band su mille, portando nel restante dei casi a fallimenti clamorosi, si veda alla voce Kreator giusto per fare un esempio. “Reroute To Remain” porta a compimento (quasi) definitivo lo strappo con il passato iniziato in sordina da “Colony”, dimostrandocelo note all’orecchio con la title-track che apre il lavoro: tastiere imponenti ma non troppo, cori e voci pulite da brividi giù per la schiena e riff più spezzati rispetto al solito (gli stessi che hanno fatto scuola negli ultimi due anni) si mischiano alle tipiche armonie, agli assoli come di consueto eccellenti cesellati dalla coppia Gelotte/Stromblad in maniera a dir poco convincente. Ne sono la riprova brani come “System” e “Trigger”, gemelline ideali entrambe con un refrain da cantare per il resto della propria vita, o “Cloud Connected”, forse il pezzo più commerciabile, attenzione alla sottile differenza con il temuto vocabolo ‘commerciale’, mai scritto dagli svedesi. C’è spazio per un paio di ballad acustiche: “Dawn Of A New Day”, una novità solo mascherata visto che tradisce fin dai primi accordi le tipiche costruzioni melodiche di chitarra degli In Flames, e “Metaphor”, esperimento perfettamente integrato prima del finale a scoppio di “Black & White”. E nel mezzo? Nel mezzo ci sono pezzi da urlo come la sparatissima “Egonomic” o la mansoniana “Free Fall” aperta da un malinconico carillon, e purtroppo ci sono diversi filler che se assenti avrebbero snellito il disco rendendo il mutamento di sound più digeribile soprattutto ai fan più integerrimi e ‘no compromise’. Che bisogno c’era della (finta) cattiveria di “Transparent” o delle invisibili e superflue “Minus” o “Dark Signs”? Nessuno. Ed è per questo che “Reroute To Remain” è un esercizio per impratichirsi dei nuovi mezzi che mette troppa carne al fuoco, danneggiando se stesso fortunatamente in maniera non irreparabile nonostante una produzione un po’ fiacca lontana da ciò a cui ci avevano abituato Anders e compagni. E ci mancherebbe, visto che si tratta di uno dei lavori più freschi e longevi degli ultimi anni.
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