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ENIAC REQUIEM: Space Eternal Void

data

20/06/2010
95


Genere: Progressive Metal
Etichetta: Shrapnel Records
Distro:
Anno: 1998

16 giugno: contatto Rob Stankiewicz su Facebook per un’intervista. Sapete, quel tipo di interviste “from the past” che si fanno per rispolverare un disco? Ecco, di quel genere lì. Dopo tre giorni mi risponde, e mi cade quasi un mito. Mi risponde che Derek Taylor è l’unico musicista effettivo del cd: le parti di batteria sono tutte programmate, e gli strumenti li suona tutti lui. Insomma, Eniac Requiem è una one-man band. I ragazzi che figurano nel booklet nella foto appaiono per un mero scambio di favori tra etichette. La storia in pratica è questa: il mercato giapponese chiede alla Shrapnel Records che si deve presentare il progetto come una band, altrimenti non avrebbe venduto molto. Sia Derek, sia la Shrapnel, quindi, avevano bisogno di un favore, e poiché Scott, Brett e David erano amici con Derek decidono di aiutarlo comparendo nel booklet. Il cd è quindi frutto della sola mente di Derek che registra il tutto a casa sua, in Corsicana, Texas. Questa doverosa premessa non toglie che sia un disco eccellente, anzi. Il mio “mi cade QUASI un mito” è proprio per quello. Per la delusione della notizia, certo: ma volete mettere che in ogni caso tutto questo ben di dio l’ha scritto una sola persona? Un concentrato di atmosfere progressive, barocche, e come suggerisce il titolo, spaziali. Un platter che parte subito in quinta con dei capolavori: "Amulet Of The Sun" che incrocia tastiere ora oscure, ora sognanti, con chitarre eleganti e aggressive, per non parlare degli assoli, ottimi in tutto il disco. "Wyrm" ha un ritmo più sostenuto e un mood più malinconico. Per non parlare delle ballads: "Endless Cosmos", dal crescendo davvero emozionante, "The Slow Prisoners"/"Sad Clown In Europe", che seppur abbiano un tono più cupo delle altre prendono intensità man mano grazie allo lavoro di chitarra di Derek. Un lavoro che si incentra per lo più sullo shredding, non quello più orientato sulla velocità, ma sulla tecnica e sul tasso emotivo di una scala sparata ad una velocità sostenuta. C’è spazio anche per la strumentale "Guenhwyvar", dal riff iniziale insolito, acido. Derek sa come mettere in equilibrio ritmi serrati ("Nemesis") ed altri più classici come nel finale. Il risultato è un disco che purtroppo nonostante la (pessima) trovata da parte dei giapponesi non ha ricevuto il feedback che si meritava. Se qualche anima intelligente lo ristampasse, non sarebbe mossa sgradita, visto il caso.

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