RAMROD
Se vogliamo fare un confronto tra le realtà underground presenti in Italia nel settore rock/metal, potremmo constatare che il riscontro maggiore in fatto di band esistenti e produzione musicale sia appannaggio della componente musicale più dura, ossia quella metallara. Nonostante ciò, esiste una componente di stampo rock classico e blues che, seppur minoritaria, una volta colta la loro essenza si capisce poi di che pasta è fatta, e la qualità che spicca. Tra le band italiane più interessanti, soprattutto dal punto di vista qualitativo e di calore emanato, ci sono i novaresi Ramrod, i quali hanno da poco pubblicato il loro secondo album 'Jet Black', uscito per l'etichetta Black Widow. Sfruttando l'onda positiva di questo evento, abbiamo avuto modo di fare una piacevolissima e densa chiacchierata con il cuore pulsante della band, i fratelli Martina e Marco Picaro, che ci hanno raccontato anima e cuore sia di 'Jet Black', che del loro modo di vivere e di pensare, il quale conosce ostacoli ogni giorno, che loro cercano con tutte le forze di superare.
Ciao ragazzi. Fatemi una breve descrizione di come siete nati come Ramrod, e del vostro percorso che vi ha portati fino alla pubblicazione del vostro secondo album ‘Jet Black’. Marco: Noi siamo nati alla fine del 2013 come un gruppo che proponeva cover di rock classico, blues e southern rock, senza nessuna pretesa. Agli inizi avevamo una formazione diversa da quella attuale che comprendeva ben tre chitarre. Dopo alcuni mesi, spinti dalla voglia di creare, abbiamo iniziato a scrivere musica originale che inizialmente era sicuramente contaminata dai generi che proponevamo nelle cover. Poi, con i vari cambi di formazione e una sintonia sempre più forte all’interno della band, siamo riusciti a trovare il nostro sound, un mix di varie influenze e vari generi, passando anche per il rock psichedelico ed il prog.
Martina: Nei primi tempi siamo passati da tre chitarre ad una, abbiamo ri-arrangiato il primo album ‘First Fall’, almeno per quanto riguarda l’esecuzione live, quindi ci sono voluti un paio d’anni per trovare la nostra strada. Anche se tutta la prima parte della nostra carriera è molto importante, io ufficializzerei la nascita dei veri Ramrod con l’entrata di Daniel Sapone, il batterista. Diciamo, quindi, che la nostra storia è composta da due fasi: la prima con la line-up a tre chitarre che gira attorno alla scrittura di 'First Fall'; la seconda che è quella attuale, e nella quale ci identifichiamo al 100%, siccome il cambio personale, artistico e creativo della band è stato sicuramente intenso.
Già con la line-up attuale avete fatto ‘First Fall’, o con quella precedente? Marco: ‘First Fall’ l’abbiamo registrato con la penultima formazione, con due chitarre.
Fino a questo momento, dove avete avuto i riscontri positivi maggiori? In Italia o all’estero? Martina: Dobbiamo porci su due livelli. All’estero ci sono più locali dove poter suonare, c’è un pubblico diverso rispetto a quello italiano, e secondo me questa è la differenza fondamentale. All’estero il pubblico è vario: uomini, donne, ragazzi, anziani, ecc ecc, e soprattutto mi ha colpita la presenza di molti giovani appassionati al rock blues, con un’età che parte dai 15-16 anni. Questa cosa in Italia è molto più rara; qui il pubblico è formato prevalentemente dai grandi “rock lovers” di una volta, che io rispetto e ammiro, perché è gente che ha vissuto la musica per davvero, però effettivamente c’è carenza di gioventù.
Marco: Quando vai all’estero noti proprio che l’attitudine delle persone durante i concerti è diversa, c’è voglia di divertirsi e tanta curiosità! È una situazione bellissima, ed indubbiamente questo tipo di atmosfera ci fa sentire a nostro agio.
Martina: La grande differenza è palpabile anche durante il live. Mentre in Italia fai molta più fatica a coinvolgere il pubblico per vari motivi che possono essere l’età, la mentalità diversa o l’approccio un po’ più distaccato verso la musica originale, in altri paesi hanno più voglia di vivere la musica, sicuramente sono emotivamente più coinvolti ed interessati ad ascoltare musica nuova. Comunque non è nemmeno giusto fare di tutta l’erba un fascio perché ci sono eccezioni in entrambe i casi! In conclusione, abbiamo avuto soddisfazioni sia in Italia che all’estero, ma in modo diverso.
Marco: Bisogna dire che l’ultimo concerto che abbiamo fatto al Rock’n’Roll di Rho (release party di ‘Jet Black’) è stata una bella soddisfazione e c’è stata molta partecipazione.
Qual è la nazione che amate di più e vi ha dato le maggiori soddisfazioni? Marco: Per ora, tra i vari viaggi in giro per l’Europa, il paese in cui ci siamo esibiti più spesso è certamente la Germania. Abbiamo visitato un po’ di nazioni come Olanda, Belgio, Svizzera ecc., ma per ora la maggior parte dei nostri show si concentrano in Germania.
Martina: Speriamo di spingerci in Svezia. Ci stiamo lavorando, è un paese che chiama molto la nostra attenzione e per quel poco di esperienza testata sul campo, sappiamo che la nostra musica potrebbe essere ben apprezzata lassù.
Arriviamo al vostro nuovo album ‘Jet Black’. Un album che vede la collaborazione ed il supporto con un’importante etichetta italiana attiva nel settore underground, come Black Widow. Come si è sviluppato il rapporto con questa label? Martina: In realtà Black Widow ci aveva già notato con ‘First Fall’, solo che noi non ci sentivamo ancora pronti per dare inizio a questo tipo di collaborazione. Riconosciamo che ‘First Fall’ è un disco diverso da ‘Jet Black’, ha un sound molto più vicino al southern rock perché, in poche parole, è il genere da cui è nato il progetto. ‘Jet Black’, invece, ha un sound molto più simile ai gusti di Black Widow, ed è stata una delle prime etichette a cui ci siamo rivolti una volta terminato l’album, ed è stato amore a prima vista per entrambi.
Andando invece un po’ più nella ciccia dell’album, di cosa vuole parlare principalmente? Martina: E’ difficile da spiegare. Per generalizzare, posso dire che è un album molto personale. Ogni canzone è un pezzo di vita, mia e nostra in generale come gruppo. Ogni brano nasce da un’esperienza di vita vissuta, da un’emozione reale che ha preso vita trasformandosi in musica. Nessun pezzo è stato scritto in maniera forzata, sono tutte canzoni nate dall’istinto, dal bisogno di concretizzare un sentimento. ‘Jet Black’ rappresenta una fase un po’ oscura del mio e del nostro cammino. Per esempio, “Don’t Call Me Sunshine” è un brano sicuramente personale, nel quale però possono rivedersi molte persone. In questa canzone mi rivolgo all’ascoltatore in tutta la mia sincerità, svelandomi per quello che sono davvero aldilà di quello che si possa cogliere esternamente e nel ritornello esclamo: “Basta chiamarmi raggio di sole, perché sono figlia della Luna”. Ho un legame speciale con la Luna, motivo per il quale si trova sia sulla copertina di ‘First Fall’, sia su quella di ‘Jet Black’. Il termine ‘Jet Black’ (nero corvino) rappresenta il lato un po’ oscuro e misterioso del disco, che al contempo sfiora una parte del mio/nostro animo particolarmente intima e profonda, è un album che va a scavare nelle nostre viscere.
Quanto è durata la vera e propria produzione dell’album, dato che qualche vostro brano l’avevate già suonato nelle vostre precedenti date live? Marco: E’ durata più del previsto. Abbiamo vissuto una fase di rallentamenti dovuti al cambio di formazione, alla pubblicazione di ‘First Fall’ e ad un periodo di lavoro dedicata al ri-arrangiamento del primo album per adattarlo alla nuova line-up. Tutto questo lavoro ha fatto ritardare le tempistiche per lavorare al nuovo disco, ma poco a poco siamo rientrati in carreggiata.
Martina: Questo disco lo abbiamo auto-prodotto nel nostro studio, così da avere la libertà di registrare e sperimentare a nostro piacimento, invece per quanto riguarda mixaggio e masterizzazione, ci siamo rivolti ad Elfo Studio.
Durante il vostro release party (andato benone secondo me), ci avete descritto la storia di “Leda”, che credo sia il brano che vi lega di più. Cosa rappresenta per voi due un brano del genere? Martina: A livello sentimentale è davvero molto significativa. Adesso rivolgo una domanda a mio fratello. Non trovi che “Leda” sia uno dei brani musicalmente ed emotivamente più belli di tutto il nostro repertorio? Almeno per me, lo è!
Marco: Sì, io direi che è un pezzettino di magia. È stata una registrazione quasi del tutto improvvisata. Praticamente ha preso vita in studio.
Martina: “Leda” è il nome della mia bisnonna paterna e l’ispirazione per la canzone è nata in seguito al ritrovamento dei suoi diari e di tutte le sue foto. Il coinvolgimento emotivo è stato talmente forte che, nel giro di 10 minuti, la canzone era lì tra le mie mani. Era la vigilia del 2018. Ovviamente io scrissi il testo e strutturai linea vocale e accordi principali, poi il grosso dell’arrangiamento musicale è passato nelle mani di Marco e successivamente dell’intera band al momento della registrazione. L’abbiamo eseguita live, per la primissima volta, durante il nostro release party.
Marco: “Leda” è stata un esperimento ben riuscito. Come ho già detto, è nata in studio e ci siamo sbizzarriti parecchio tra chitarra acustica, sitar, flauto traverso, percussioni e sintetizzatori. La magia si è creata al Rock and Roll di Rho, quando l’abbiamo eseguita per la prima volta dal vivo; credo che in quel momento le nostre emozioni fossero alle stelle, è stato il picco massimo della serata.
Quindi, quest’ispirazione che ti è venuta di getto, scrivendo il brano in dieci minuti, ti è venuta a seguito della lettura di questi documenti? Martina: Assolutamente sì. Sono rimasta fortemente colpita nello scoprire la storia della mia bisnonna e di quante cose avessi in comune con lei. La sua immagine mi ronza nella testa fin da quando ero piccola, tanto che molti familiari mi paragonavano a lei fin dalla tenera età, dicendo che probabilmente il mio lato artistico derivi proprio da lei. Difatti Leda era pittrice (io non dipingo, ma mi piace disegnare) e musicista, suonava il pianoforte. Era una maestra, come me (insegno inglese ai bambini) e teneva un diario segreto nel quale scriveva poesie e collezionava fiori secchi, esattamente come faccio io. Addirittura le nostre date di nascita sono simili, lei nacque il 21.01.1892 ed io il 21.10.1992, cent’anni di differenza e stesse cifre. Venni a conoscenza di tutto ciò solamente due anni fa, mi viene la pelle d’oca solo a parlarne! Senza contare che la mia bisnonna, una volta scoperto di essersi gravemente ammalata in seguito alla gravidanza, decise di dare alla luce mio nonno in ogni caso, nonostante ciò le avrebbe causato una morte prematura. Una serie di eventi la rendono immensamente speciale ed importante ai miei occhi, basti pensare che senza il suo sacrificio, noi non saremmo qui ora!
Attualmente, nella vostra vita quotidiana sia professionale, sia musicale, sia nelle vostre relazioni sociali, avete trovato delle persone che possano impersonificarsi il più possibile con "Leda"? Martina: No, assolutamente no. Leda è mia nonna. Leda siamo io e mio fratello, è la nostra musica. Mi sto rendendo conto in questi anni che io e Marco, come autori e compositori abbiamo un marchio di fabbrica riconoscibile. So quali sono le peculiarità che ci caratterizzano, musicalmente parlando, e nascono proprio dalla fusione dei nostri due spiriti creativi, non separatamente, ma insieme. In ogni caso, essendo un tema molto personale, non ho mai pensato di trovare qualcuno che possa rappresentare “Leda”. Però spero che altra gente possa far suo il messaggio della canzone tanto da poter leggere nella storia di Leda, la propria storia personale o di una persona cara.
Marco: Con questa domanda ci tocchi davvero nel personale. Io spero che tanta gente possa sentire una connessione con la figura di Leda, ma è difficile dire che qualcuno possa immedesimarsi in lei.
Se doveste scegliere, a quale altro brano di ‘Jet Black’ siete più affezionati? Martina: “Lion Queen” è sicuramente una delle canzoni in cui mi sento maggiormente rappresentata, soprattutto a livello di tematica. Anche “Lion Queen” è nata di getto in pochi minuti e dopo un bel po’ di mesi è diventata una canzone dei Ramrod. Se dovessi riascoltare l’album, a parte “Leda”, sceglierei sicuramente “Glass Of Wine” che personalmente considero una bomba, sia musicalmente che a livello interpretativo e di significato. Per me è come un rituale di liberazione ogni volta che la canto e sono sicura che molte persone possono sentirsi identificate. Un’altra che mi piace tanto è “Bluesy Soul”, che ascolto sempre con molto piacere (non sono il tipo che ascolta i propri dischi a ripetizione, anzi! Cerco di evitarlo il più possibile per non spezzare la magia). “Sorrow” è stata uno dei miei primi amori e rimane tra le mie preferite, nonostante risuoni nella mia mente da molto tempo.
Marco: “Glass Of Wine” mi diverte sempre da eseguire sul palco, da ascoltare e da vivere; “Don’t Call Me Sunshine” è il brano che portiamo in giro da più tempo e, nonostante ciò, continua ad affascinarmi. Al giorno d’oggi una delle mie preferite è “Ares Call”, è anche da poco uscito il videoclip!
Che rapporto avete con la vostra città natale, Novara? E’ una città che vi dà le giuste ispirazioni artistiche, e credete possa essere un luogo interessante per coltivare la vostra passione? Martina: Se posso essere sincera e diretta, non ho un bellissimo rapporto con Novara. Anni fa sono arrivata al punto di scrivere una canzone per sfogare ogni mia frustrazione e delusione nei confronti della mia città, e mi sarebbe piaciuto urlare al mondo ciò che avevo dentro. Purtroppo Novara mi ingrigisce, mi spegne poco a poco, ma per il semplice fatto che il mio spirito non riesce a incastrarsi con quello di questa cittadina. C’è gente che ama Novara, purtroppo io non mi sento parte di questa cerchia di persone. Io sono una viaggiatrice incallita, sono sempre in movimento in giro per l’Europa, che sia per i tour con i Ramrod o per motivi miei personali e si sa che viaggiare apre la mente. Sono uno spirito libero per natura e sono alla costante ricerca del nuovo, del diverso, del cambio e soprattutto di nuovi stimoli. Ho avuto la fortuna di scoprire realtà estremamente stimolanti e vibranti dove l’arte è viva ed in fermento. Purtroppo non ritrovo nulla di tutto ciò nella mia città, dove ogni impulso artistico fa fatica a nascere e a crescere. Vogliamo parlare del fatto che a Novara non ci sono locali per ascoltare musica live il sabato sera?? Ci sono alcuni locali che sporadicamente organizzano serate di musica (grazie al cielo!), ma i pochi live club o pub di live music esistenti hanno pian piano chiuso i battenti lasciandoci con un pugno di mosche.
Marco: Vorrei solo aggiungere che, in relazione alla musica rock, specialmente il genere che facciamo noi, l’ambiente è già di per se povero in città come Milano, e se scarseggia la scena a Milano, figuriamoci in posti di provincia come Novara dove non c’è un locale dove puoi andare ad ascoltare musica dal vivo durante il fine settimana.
Martina: Tolto il fattore musicale, sento che qui a Novara non venga dato il giusto spazio e la giusta considerazione alle discipline artistiche o ai movimenti creativi, soprattutto ai giovani che vogliono intraprendere questo percorso. La cosa bizzarra è che a Novara ci sono tantissimi musicisti talentuosi ed artisti in generale, ma ciò che ci blocca è la carenza di spazi e possibilità. Sembra quasi che l’arte non venga valorizzata né tantomeno presa in considerazione. Spero che ci sia una svolta e che Novara si apra a nuovi stimoli. Poi lo ripeto, sicuramente il mio animo con tutte le sue pulsioni non si sente rappresentato da questa città, mentre moltissime persone la amano. Ma in ogni caso spero che, per chi viaggia nel mondo dell’arte, ci sia un forte cambiamento in positivo!
Marco: Purtroppo c’è un limite che blocca l’Italia intera, basti pensare che l’ambiente rock blues underground molto spesso non include l’Italia come tappa durante i tour Europei (tante band hanno cancellato le date all’ultimo per la carenza di partecipazione). Aldilà delle Alpi le cose sembrano funzionare molto meglio e sembra quasi che nel Belpaese il nostro genere non trovi terreno fertile, ma non solo per noi che qui ci siamo nati, ma per tutti coloro che provano a portare qui la propria musica. Per assurdo, in Spagna le cose vanno molto meglio, eppure è un paese che culturalmente ed economicamente ci somiglia parecchio. Nonostante ciò, l’underground trova molto più spazio per svilupparsi.
Ma ripeto, la speranza è l’ultima a morire e noi non molliamo il colpo!
Parlando specificatamente di voi due, come vi è nata questa passione per la musica, e specificatamente per il rock-blues? Martina: Da sempre. Siamo cresciuti con questa musica, uno dei miei primi ricordi è “Angie” dei Rolling Stones che risuonava nei lunghi viaggi in macchina con i miei genitori, oppure “Free Bird” dei Lynyrd Skynyrd che ha sicuramente segnato la mia infanzia. Poi da cosa nasce cosa, Marco ha scoperto Jimi Hendrix quando era piccolino ed è stato il suo primo amore, e da lì è iniziato tutto.
Ecco Marco, come si è sviluppato il tuo percorso di formazione chitarristica? Quali sono i tuoi principali riferimenti? Marco: Veramente all’inizio volevo suonare la batteria, ma poi ho optato per la chitarra quando ho conosciuto Jimi Hendrix ed in casa avevo solo una chitarra classica con la quale muovere i primi passi (magari non è l’ideale per cercare di imitare Hendrix, ma la passione fa questo ed altro!). Dopodiché iniziai con qualche lezione di chitarra, elettrica ovviamente, e da lì prese il via un lungo percorso alla scoperta del Rock degli anni ‘70, che tutt’ora permane in cima alla lista delle mie più grandi passioni. Negli anni ho scoperto ed amato tanti generi musicali, ora studio jazz presso il conservatorio G. Verdi di Milano, ma per riassumere posso dire che il classic rock, oltre che un grande amore, è proprio uno stile di vita che mi rappresenta alla perfezione. Sono le mie radici e ne vado molto fiero.
A contorno della vostra attività con i Ramrod, voi tenete viva la fiamma artistica con il progetto Lizard in the Redwood, dove fate intravedere la vostra autentica passione in una forma pura e semplice, solo voce e chitarre. Come sta andando questa esperienza, ed attualmente a quali platee si rivolge? Martina: Sinceramente, la risposta a questa domanda è molto semplice. Lizard in the Redwood è un progetto “non progetto”, siamo noi nella nostra semplicità e quotidianità, ma su un palcoscenico davanti ad un pubblico. Per dirla in maniera spiccia, abbiamo deciso di portare sul palcoscenico ciò che noi siamo tutti i giorni tra le mura di casa. Anche il nostro repertorio è vastissimo, per il semplice fatto che non ci diamo limiti e suoniamo ciò che più ci piace al momento.
Marco: Infatti, non ha neanche molti confini a livello di generi musicali. Durante una delle nostre serate si possono sentire pezzi rock, blues, folk, jazz, soul; pezzi R&B in chiave nostra.
Molti vostri colleghi musicisti affiancano la loro carriera musicale a dei percorsi di insegnamento, didattica e formazione. Anche voi state affrontando quest’esperienza? Vi piacerebbe farlo un giorno? Martina: In realtà ci ho pensato tanto, ma non credo che sia ancora il momento di dedicarmi all’insegnamento. Prima di tutto non penso di avere le competenze necessarie, siccome rispetto molto gli insegnanti e so che il loro lavoro è una cosa seria che non va presa sotto gamba (nel senso che non tutti possono svegliarsi un mattino e decidere di insegnare una disciplina, perché dietro ad un maestro ci sono anni di studio e sacrifici). Quindi, per ora preferisco essere alunna, credo ci sia ancora moltissimo da imparare e la cosa mi emoziona tanto! Ora sono concentrata sul mio percorso artistico come cantante e autrice/compositrice, ma arriverà un giorno in cui, dopo studi specifici, potrò iniziare a pensare di insegnare.
Marco: Anch’io, per lo stesso motivo. Adesso sto frequentando il Conservatorio Jazz, e sono nel bel mezzo degli studi. Voglio prima sviluppare la mia conoscenza musicale al meglio, e più avanti, nel caso, dare lezioni.
Parlando di sogni, con quale band vi piacerebbe affrontare un tour, o anche solo una serata, insieme? Martina: Parlando di band attuali e di grandi sogni, a me piacerebbe molto condividere il palco con i Rival Sons. È una delle band con le quali ci sentiamo maggiormente in sintonia e che può considerarsi una grande fonte di ispirazione e di speranza. Un’altra delle grandi band che, soprattutto agli inizi, ci hanno ispirato molto e con i quali sarebbe fantastico condividere il palco sono i Blackberry Smoke. Anche con i Blues Pills sarebbe molto emozionante, ma la lista in realtà è davvero lunga.
Parlando, invece, di futuro più immediato e in senso più pratico, avete già attività fissate e progetti in mente? Martina: Per i nostri sostenitori, posso dire che stiamo iniziando a scrivere e registrare il nostro terzo disco con molta calma. Le canzoni sono quasi tutte pronte per essere incise. Ci piacerebbe girare qualche altro videoclip prima dell’uscita del terzo album, abbiamo già qualche idea, ma tempo al tempo. Poi la vita è imprevedibile, ci sono idee dell’ultimo secondo che possono dare la svolta o cambiare totalmente i piani. Per esempio, ho scritto una canzone pochi giorni fa che vorrei registrare nell’immediato, questo non era previsto, ma adoro gli imprevisti! Se uscirà a breve, ricordami di quest’intervista! ahah
Per salutarci, provate a motivare il pubblico a conoscervi e ad ascoltarvi. Martina: Pubblico! Noi siamo una band di cinque appassionati viscerali per la bella musica, è una passione indescrivibile, è il sangue che ribolle nelle nostre vene e nel nostro cuore. Tutto quello che esce dalle nostre dita e dalla nostra voce è amore puro. Quello che sentite sul palco siamo noi, è la nostra vita che diventa musica e la vogliamo condividere con voi in modo che possiate vivere le nostre stesse emozioni e farle vostre. Supportate le nuove band, coraggio! La musica va avanti! Il rock non è morto, anzi è vivo ed in fermento, rendiamolo possibile anche in Italia, abbattiamo le barriere! Il rock è vivo e noi ne siamo l’esempio!
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