GARY MOORE: Wild Frontier
Sono stati incisi tanti grandi dischi, innumerevoli top album, lavori che indiscutibilmente hanno fatto la storia e/o influenzato le generazioni successive che hanno ricevuto entusiastiche, ma quanto classiche recensioni. Considerato che si tratta dei "biggest records", (biggest perchè "grande" in tutti i sensi), abbiamo pensato bene di dare loro la giusta visibilità e la dovuta dimensione con speciali che provano a scavare in fondo fin dentro le viscere dei contenuti degli album.
Prima del suo ritorno alle origini negli anni '90 quando Gary espresse tutto il suo amore per il blues (Peter Green il suo padre putativo, chitarrista e fondatore dei Fleetwood Mac), interpretandolo con la passione che gli si riconosce con album del calibro di 'Still Got The Blues', 'After Hours' e l’esplosivo live 'Blues Alive', nonchè dopo un approdo poco felice verso sonorità più elettroniche con 'A Different Beat' (mai titolo più appropriato) di per sé ben concepite, ma che non lasciano trasparire il suo autentico feeling diventato ormai un vero e proprio marchio di fabbrica, Gary lasciava ai posteri il disco più affascinante ed emozionante che gli sia mai capitato di scrivere: 'Wild Frontier', ovvero quando l’anima hard rock si traveste di irish traditional folk music: le sue amate radici, la storia e la cultura della propria terra. Gli scenari che ne conseguono, ispirati da un viaggio nei luoghi dove si è nati tenutosi qualche anno prima, trovano immediata rappresentazione in "Over The Hills And Far Away", brano in cui strumenti tradizionali, ritmica tamburellante e violini letteralmente volanti dettano tempi e melodie d’altra epoca, supportati dal riffing a tema e da un ritornello che scioglie il sangue nelle vene: un classico. La title-track riprende discorsi meno etnici, ma pur sempre influenzata da sonorità celtiche, up-tempo quadrato e linee melodiche che rimandano a radici arcaiche britanniche. "Take A Little Time” e “Thunder Rising” sono gli episodi più massicci del lavoro e sembra vogliano fare da apripista a quello che sarà l’album successivo, 'After The War', da molti considerato il disco più heavy dell’axeman (album a cui parteciperanno Ozzy, Cozy Powell, Simon Phillips, Don Airey ed altri in cui è inclusa la cover della stupenda e lizzyana “Blood of Emerald”). Comunque, sempre due canzoni che ben si inseriscono nel contesto tipico dell’album grazie ad un mood folk in sottofondo che non lascia certo ad interpretazioni. La sua chitarra assume il ruolo principale in "The Loner", cover strumentale di un misconosciuto chitarrista: Max Middleton. Le emozioni e le visioni che questa ballad riesce a far vivere sono indescrivibili. Gary lascia parlare, raccontare, piangere e soffrire la sua sei corde. Un turbinio di sensazioni che fluttua tra i pensieri più disparati, di sollievo e di tristezza, note che trafiggono il cuore, ma che allo stesso tempo tentano di rianimarlo come già in passato avevamo avuto la fortuna di rivivere grazie alla struggente malinconia indetta da "Pariesienne Walkways", interpretata col sempre presente e mai dimenticato Lynott (al quale il disco è stato dedicato ed a cui avrebbe dovuto partecipare: Phil morì nel 1986, l'anno prima). "Friday On My Mind", brano dei The Easybeats, riprende il discorso folk momentaneamente interrotto e si presenta come il pezzo più marcatamente ruffiano dell’album: un continuo intrecciarsi di chitarra, keys e sonorità tradizionali irlandesi che cavalcano spediti, lasciandosi dietro refrain e chorus che non riesci a scrollarteli di dosso. "Strangers In The Darkness" e "Johnny Boy" (brano dedicato a Lynott) sono "gloomy song" in cui emerge lo spettro dei caseggiati urbani semidistrutti dalla guerra, quello degli amici e dei fratelli perduti in battiglia, qualunque sia stata la battaglia abbiamo dovuto combattere (Lynott quella della tossicodipendenza). Due inni alla memoria che albergano in quel territorio ancestrale, antico, paesaggistico ed incontaminato, ma così dannatamente urbano, piovoso ed in parte radioso rappresentato ed interpretato da 'Wild Frontier' tutto. Un masterpiece che ha fatto e che continua a fare storia, che non aspetta altro di essere rivisitato e riascoltato ed ogni volta apprezzato in tutta la sua perdurante ed estenuante bellezza. Frutto immortale come la terra che lo ha generato. Radici spesso calpestate, ma pur sempre ritrovate e che riemergono con fierezza. Uno di quei dischi che da qui ad altri 50 anni suonerà sempre attuale ed emozionante, come ogni singola nota composta, come ogni assolo lasciato ai posteri dal chitarrista nord irlandese che, personalmente, considero il chitarrista più grande di sempre.
P 1987 Virgin Records
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