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MANOWAR: LOUDER THAN HELL

data

19/03/2004
40


Genere: Heavy Metal
Etichetta: Geffen
Anno: 1994

In piena tradizione Manowar, un opener autocelebrative ed altisonante,"The Return of the Warlord", ovvero Scott Columbus: canzone dedicata al ritorno del drummer nelle file della band, e che mette in mostra l'abilità del nuovo chitarrista Karl Logan. Sembrerebbe che la nuova formazione dei Manowar sia in forma pressochè perfetta, con questa pomposa promessa e questo grandioso ritorno. Peccato che ascoltando il disco ci accorgiamo che si va avanti aspettando l'esplosione, il brano che possa farci gridare ancora una volta "death to false metal!"… e che appena questo sembra essere arrivato, il disco si conclude nell'anonimato più assoluto. Non ci sono mezze misure: i Manowar non erano mai scesi così in basso. Cominciamo a salvare quel poco che c'è da salvare: nonostante la mediocrità che affligge il disco, buoni episodi non mancano. Innanzitutto l'anthem "Brother of Metal" e la ballad "Courage"… che però risalgono nientepopodimeno che al 1985 e sono qui semplicemente riproposte in una nuova forma. Delle canzoni concepite per questo disco, cosa si salva? Probabilmente soltanto le tracce conclusive. "Today is a Good Day to Die" è un pezzo che potremmo definire al confine con l'ambient, lento e sepolcrale, riflette benissimo il titolo in dieci minuti di durata impreziositi dai virtuosismi di Karl Logan, che culminano nel solo di chitarra, "My Spirit Lives On", vero e proprio virtuosismo di notevole bellezza. E' comunque chiaro che questi episodi, seppur bellissimi, non sono in alcun modo vere canzoni. Bisogna aspettare la conclusiva "The Power" per avere un saggio della vera potenza dei Manowar: essa è infatti un grandioso inno di puro speed metal, aggressivo e travolgente, in cui veramente si compie quello che si è aspettato nell'intero disco. E il resto? Niente. Il buio totale. Le varie "Number One", "The Gods Made Heavy Metal", "Return of the Warlord", "Outlaw", "King", sono pezzi assolutamente insignificanti, veri e propri inni alla banalità privi persino della grinta che i Manowar sanno mettere ovunque, col solo vantaggio di essere brani che dal vivo funzionano alla grande grazie a una formula semplicissima ma terribilmente ripetitiva. Ci sono canzoni che hanno praticamente lo stesso riff, lo stesso ritornello, la stessa stanchissima e prevedibile formula di metallo anthemico ma assolutamente futile e fine a se stesso, autocelebrativo senza però la minima motivazione. Va bene che non era necessario aggiungere nulla a quanto già detto nella storia della band, ma almeno quello che si sa fare, facciamolo bene, no? Magari poi questo è un disco che potrà piacere a chi non conosce minimamente la band, perché dopotutto le melodie sono comunque carine, le canzoni possono anche essere sufficienti, ma da musicisti della loro levatura un fan si aspetta ben di più. Davvero molto di più, soprattutto da una band che ha sempre sbandierato il metallo puro e incontaminato.

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