213: Three Little Words
Spiagge bianche, le onde che lentamente accarezzano la battigia mentre il sole tramonta e s'immerge nel mare a vista d'occhio sconfinato. Qualcuno ancora passeggia lungo la riva. L'aria si è fatta tersa, il cielo striato di colori caldi ed avvolgenti. Alte palme proiettano le loro lunghe ombre sulle strade dorate del giorno che sta per finire. Tra un cocktail e l'altro ti vedi seduto al tavolo di un bar, mentre la radio trasmette melodie sognanti che da tempo non ascoltavi, e ritrovi te stesso, quello che sei stato e quello che sei adesso nelle note di...Sunset Boulevard, la nuova rubrica di Hardsounds interamente dedicata alle sonorità West Coast. Pronti a viaggiare?!?
Come uno scatolone lasciato in soffitta o in un sottoscala. Siamo nel 1981, Los Angeles, l’arrangiatore e musicista Bill Meyers, dopo aver registrato e partecipato a tournée con Gino Vannelli, Boz Scagg, Madonna, etc., incontra l’emergente cantautore Guy Thomas (Kenny Loggins, Michael Bolton, Jackson Browne); dall’intesa nascono alcune canzoni. Bill “compone telefonicamente il prefisso 213” e contatta gli altri compagni di sessione, il bassista Neil Studenhaus (Barbra Streisand, George Benson, Joe Cocker), il chitarrista Carlos Rios (Vannelli, Boz Scaggs, Earth, Wind & Fire) e il batterista Vinnie Colaiuta (Sting), con i quali vengono registrate alcune tracce. Il batterista deve abbandonare la collaborazione per andare in tour con Frank Zappa, e magicamente viene sostituito dall’amico Jeff Porcaro: si registrano le prime quattro tracce. Scambi di saperi tra musicisti. Porcaro chiede a Bill i testi, suggerendoli che il successo di una canzone è da ricercare, prima nel testo e poi, nel legare l’idea musicale al messaggio contenuto. Le tracce vengono inviate alla Warner Brothers Records ed il singolo ‘Three Little Words’ conquista! Viene chiesto ai 213 di portare loro altri successi. Intanto Vinnie rientra dal tour, vengono così incise altre cinque tracce.
L’amico e produttore David Foster vuole co-produrre il buon progetto. La seconda fase risulta essere anche di maggior valore come produzione musicale, merito della coppia Bill/Guy (e forse dei Toto suggerimenti), ma l’etichetta discografica chiede loro un ulteriore singolo di successo. Nel frattempo, il talentuoso Guy ottiene l’incarico per intraprendere la carriera da solista, pertanto l’esordio 213, rimane incompleto e sfuma. 37 anni dopo (2018) un distributore giapponese, dopo aver ascoltato tutto il materiale, manifesta la propria intenzione a pubblicare, ma si presenta con un’offerta economicamente bassa. A quel punto, sembra quasi, che “il vecchio scatolone” inizi a diventare allettante e prezioso per più contatti discografici. Da lì nascono le produzioni: nel 2019, in Europa la Preservation Records pubblica il progetto 213. Qual è il contenuto di questo “imballaggio musicale”, che come nei più organizzati traslochi risulta anche essere numerato? Il sound anni ’70, tendente al suono di Philadelphia – Philly Sound – dalle caratteristiche uniche e riconoscibili: musica curata, variegata, dal soul al funk, jazz, pop e rhythm and blues, con atmosfere che risaltano gli strumenti (archi, fiati, synth, bassi), dalle sonorità solari, melodiche e ballabili, anticipatorie alla disco music, di estrema raffinatezza, mai dozzinali, mai mediocri e commerciali, affini ai Soul Survivors. Un connubio tra l’armonia degli americani Pablo Cruise, il buongusto degli Steely Dan ed il marcato e puro philly sound degli Hall & Oates: questo sono gli 213.
Aprite lo scatolone e fatevi accarezzare dal sax di ‘Three Little Words’, il tintinnio chitarra/tastiera/basso sembra un interloquire tra più strumenti. Lasciatevi andare, con il proto-disco music di ‘Oh Me, Oh My’, con l’intrepido prog di ‘Under Her Spell’ o con il soul di ‘Woman’. La sorprendente ‘Could’t Be Happier’, è un chiaro richiamo agli altri Survivor ma, in chiave più raffinata (cavolo, rivoglio Jimi Jamison in vita!). Proprio da questa traccia in avanti i 213 alzano l’asticella del songwriting di tutto l’album ed io ho il dovere di soffermarmi su ‘Ohio’. Infinita bellezza. In lei trovo la leggerezza di un cantico dal sapore classico; gli archi creano atmosfera, un pensiero di chitarra anticipa il passo alle tastiere che, con il basso, riempiono l’atmosfera di un profumo di antico, che sprigiona empatia nell’aria, con tutto ciò che mi circonda. Inestimabile. In questi cinque minuti ho creduto, di aver trovato il tesoro nascosto. E in “quel sottoscala”, la mia ragione è stata rapita da un curioso grillo in testa che si è insinuato con ‘Look Inside Yourself’, con la prima strofa, forse un ricordo lontano di qualche pubblicità anni ’80, o di qualcosa piacevolmente già sentito, ma che non sono riuscita a mettere a fuoco. Fatelo voi!
P 1981 Warrior Records
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