LAST IN LINE: Jericho
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28/04/2023Fin dalla loro fondazione i Last In Line si fanno portatori del verbo di Dio (ovviamente parliamo dell'unico vero Dio, Ronnie James) e alfieri di un hard 'n' heavy primigenio di matrice spudoratamente ottantiana e non potrebbe essere altrimenti visti i nomi coinvolti, in particolar modo Vivian Campbell e Vinny Appice, vere e proprie colonne portanti dei Dio. Con queste premesse, sappiamo già cosa andremo ad ascoltare e possiamo mettere la mano sul fuoco riguardo la qualità del prodotto. Il disco inizia senza risparmiarsi in quanto ad energia, "Not Today Satan" parte diretta e non fa prigionieri, giocandosi tutto su un riff semplice e sulle abili doti vocali di Andrew Freeman. "Ghost Town" fa riprendere fiato attestandosi su un mid-tempo di quelli più classici e ottantiani che portano alla mente gruppi quali gli intramontabili Whitesnake degli anni d'oro, con un chorus arioso che è il vero punto di forza del brano. La stessa struttura viene impiegata anche nel trittico successivo, nel quale "Bastard Son" sembra il passaggio più debole apparendo più statica rispetto alla precedente e lasciando un retrogusto di "incompiutezza", mentre "Burning Bridges" contiene tutti gli elementi della tipica heavy ballad, smorzando per il momento i toni prima della successiva incursione rappresentata della pregevole "Do The Work". Presentata in anteprima come singolo dalla esplosiva carica sensuale degna di una playmate, fonde il rock più classico e zeppeliano con la grinta anthemica più heavy metal; e il connubio funziona ed esalta!
Continua la folle ed inarrestabile corsa dei nostri con "Walls Of Jericho", brano che pigia ancora sull'acceleratore lanciandosi in un up-tempo scandito dal chirurgico drumming di Vinny Appice e con un Andrew Freeman in gran spolvero che sfoggia una timbrica calda e graffiante. Il gusto per il rock melodico è un fil rouge che attraversa tutte le dodici tracce di questo disco che nella sua fase conclusiva cala l'ultima vincente coppia di assi costituita da "We Don't Run" e "House Party At The End Of The World" che ricordano i Dokken di 'Back For The Attack". Malgrado qualche passaggio meno convincente e trascurabile e una copertina ai limiti del difendibile, è un disco che non manca di guizzi capaci di esaltare ancora i vecchi metalhead che vivono di inossidabili ricordi.
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