GRAVELAND: THE FIRE OF AWAKENING
data
25/10/2003Epic, sì: la definizione migliore per il nuovo corso della storica formazione polacca dei Graveland, ormai one-man-band di Robert Fudali alias Darken… ricorrere alle abusate quanto incomprensibili definizioni del tipo "pagan/ns/black metal" mi sembrava sinceramente una pessima cosa! Che i Graveland avessero da tempo abbandonato il face painting e le ritmiche serrate non è più un mistero per nessuno, e infatti da "Immortal Pride" in poi la band ha abbracciato lo stile che fu dei Bathory di Hammerheart: riff ampi, glaciali, potenti e monumentali, che scolpiscono nel ghiaccio una musica epicissima ed evocativa, arricchita dagli immancabili cori e dalla consueta atmosfera pagana made in Graveland (che chiaramente anche a livello lirico proseguono il loro discutibile ma sincero e serio percorso di recupero delle radici pagane della razza bianca). Rispetto ai recenti lavori che consacravano la nuova scelta stilistica di Darken con un'atmosfera davvero celestiale e maestosa ("Creed of Iron" ad esempio), questo "The Fire of Awakening" risulta più cupo, più arrabbiato, anche grazie ad un impatto maggiormente chitarristico e pesante, e a vocals notevolmente più incisive. Una buona scelta che, se non è certo un ritorno alle sonorità di "Thousand Swords" come sbandierato dalla No Colours, comunque rende il tutto più plumbeo e decisamente inquietante, quando la tensione non viene spezzata da momenti più corali e maestosi che aumentano in maniera apprezzabile la varietà di un lavoro dall'impatto assolutamente omogeneo e massiccio. Le cinque canzoni risultano infatti sempre caratterizzate da un incedere maestoso, lento e pachidermico, volutamente incessante e giocato su ripetizioni continue e su formule non sempre molto varie: canzoni lunghe, molto lunghe, forse troppo (una media di circa 8 minuti) e riff dalla tessitura larga e privi di qualsivoglia accelerazione, come già fatto in passato dai nostri. Ciiononostante, ci sono ottimi momenti un po' ovunque, come i riff di "Battle of Wotan's Wolves" che alternano sapientamente successioni più melodiche a altre veramente aspre, o la claustrofobica avanzata di "Die for Freedom", che presenta i momenti più cruenti del disco. Incredibile è l'iniziale parte lenta di "In the sea of Blood", che può addirittura ricordare alcune cose fatte dai Manowar per l'atmosfera di tensione che riesce a creare, e risulta nel complesso la migliore del lotto, grazie agli affascinanti cori che si intrecciano a riff monumentali sempre molto semplici. Il vero problema di cui soffre il disco è la già citata stasi artistica: risulta molto difficile farsi un'idea distinta dei 5 pezzi che lo compongono, sia per la loro lunghezza che per la loro omogeneità, la formula non cambia mai, e se questo da una parte crea un'opera monolitica e volutamente compatta, dall'altra può togliere interesse a un genere già di per sé abbastanza ostico. Cionostante, se amate i Bathory di Hammerheart, questo disco non potrà non piacervi, in quanto è un'ottima riproposizione di quelle sonorità attraverso la particolare sensibilità (e il vago sentore del passato black) dei Graveland, una band in ottima forma grazie alla creatività di un Darken che, se comunque non è molto avvezzo ad "osare" in nuovi territori, quello che fa lo fa con indiscutibile bravura.
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