SOLSTAFIR: Berdreyminn
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30/05/2017Non appena scopriamo che la band da recensire proviene dall'isola dei geyser ci viene subito in mente la partita di calcio Italia - Islanda nella quale la nostra squadra di supercampioni professionisti fece una fatica immensa per superare una selezione praticamente amatoriale, dove i loro calciatori facevano altro di mestiere e si dedicavano al calcio per passione. Ora vi chiederete cosa centra tutto ciò con la musica, ve lo spieghiamo subito: i Solstafir sono una band che unisce il genio con alcune scelte amatoriali: la genialità la troviamo nelle idee e nelle atmosfere che sanno ricreare, l'amatorialità risiede nell'uso della voce, troppo sopra le righe a causa di un singer non particolarmente dotato che si sforza maledettamente di raggiungere vocalizzi molto difficili da raggiungere; infine la lingua (l'islandese) non è affatto musicale e stride con i suoni. Sta di fatto che il disco è una contraddizione in termini: ariose partiture contrastano con un cantato agreste, voli psichedelici e giri di basso new wave (alla Simple Minds in "Isafold"), soluzioni sinfoniche e giri di batteria scolastici, imperiosi crescendo e placide suite di piano con cori operistici in "Hula" che sanno cullare come in "Dyrafjordur"; un violino fa da preludio ad un intenso e malinconico post rock/post metal in "Hvit Saeng". Sanno ammantare le tracce di esoterismo grazie all’uso di un organo sepolcrale come in "Blafjall" e "Silfur-Refur", entrambe devastate da un cantato rovinoso, per non parlare della monotonia della prima parte di "Naros" che quando ormai rasenta la noia improvvisamente si vivacizza grazie ad una svolta cara agli U2 di 'Unforgettable Fire'. L’evoluzione dei brani è simile per la maggior parte del lavoro: inizio placido e grandiosi crescendo ne consegue un songwriting maestoso, ma voce e lingua non all’altezza. Una contraddizione in termini.
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