O.R.K.: Firehose Of Falsehoods
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19/04/2025Quanto pesano le emozioni? E’ l’ambiguità il tema del quinto disco degli O.R.k., intesa come duplice interpretazione della realtà, o addirittura come una falsa interpretazione. La verità risiede nella sincerità, nell’agire in accordo con i propri sentimenti. La loro musica ne porta il peso. Il rumore, il suono è reso distorto e ambivalente; a tratti impulsivo, senza filtri, a tratti vellutato. Gli strumenti musicali e la voce sono in uno stato dinamico dall’equilibrio instabile. La traccia di apertura “Blast Of Silence” è un omaggio al ritmo costruito, elettronico, che ricorda il picchiettio metallico dei cucchiai di Artis (“Spoonman”). I suoni dall’effetto giungla, il lamento urlato dall’effetto megafono nel coro, il basso di Seattle, la potenza vocale di LEF che, nelle tonalità più alte, ci regala emozioni da Chris Cornell, sono solo un riflesso della realtà! Un rimbalzo, una contrazione del suono, e la realtà si reincarna in un violino, costruito, elettronico. Allora strazianti guaiti della sei corde sono come impulsi di verità da perseguire. Bentornati O.R.k. Il loro art-rock, prog rock, si riempie di emotività. Ritornano carichi di quel “non so che” (che a mio giudizio mancava nelle precedenti composizioni). Stracolmi di verve post grunge dal tiro inconfondibile (ma dallo spirito celebrativo), che caratterizza tutto l’album, in modalità più amplificata (Soundgarden), e/o in modalità piu’ dissipata (Eleven, ‘Thunk’, 1995, nella voce maschile di Alain Johannes, spalluccia di Cornell), rendendo ‘Firehose Of Falsehoods’ il loro miglior album. In “Hello Mother” si fa interessante l’alchimia tra il motore di questo disco e l’art rock: ambivalenza tra ‘Temple Of The Dog’ (1991) ed il basso muscolare di Steven Wilson (“Luminol”, 2013). “The Other Side” continua a perseguire il discorso del doppio lato della stessa medaglia. Calma scandita da un ritmo lento e svarionato dall’accento su pulsazioni prepotenti (lato dritto), ed un ritornello che scuote il silenzio in rumore (il rovescio)! E’ un album in cui l’impeto è più comunicativo delle parole. Ed il contributo delle chitarre, finalmente più condite da grezzume ed arroganza, rende più istintivo il risultato. Metaforicamente “16000 Days” suona come una corda prima allentata e poi tesa, come un cappio al collo. La professionalità di LEF nel comporre colonne sonore si materializza in un’atmosfera noir anni ’50 in “PUTFP” (Pick Up The Fock Phone), dall’ingrediente post prog rock che sfocia in un incalzante poesia strumentale. Stempera l’atmosfera la troppo orecchiabile “Seven Arms”. Sostanzialmente, nella seconda parte del disco, gli impulsi grunge si riducono a sprazzi umorali, sbalzi ormonali, e prevalgono ritmi matematici (“Beyound Reach”), fino a collimare nella tristezza (analogia da “Drive Home”, Steven Wilson (2013), in “Mask Becomes The Face”, e nel suo solo di chitarra dell’ospite John Wesley (ex Porcupine Tree). La bonus track “Dive In”, non presente nel formato in vinile (complimenti per il suono delle percussioni), fa trasparire tutta la coesione del gruppo: i due stranieri ed i due italiani in remoto dalla ormai collaudata collaborazione fraterna. Con un album del genere tornerei a verderli live!
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