LOUDNESS: BIOSPHERE
data
05/11/2003Purtroppo, e non saprei spiegarne i motivi, gli ultimi lavori dei Loudness sono reperibili solo in versioni import a prezzi astronomici. E non saprei spiegare nemmeno il perché come una band in giro da 23 anni, e con un certo consolidato seguito, non riesca o non voglia uscire dall'ombra del sole che nasce. Scelta personale, disinteresse delle label occidentali o cosa? Certo che impostare il sito ufficiale solo in lingua giapponese rende ancora più ardua la comprensione, una scelta che lascia presagire un volontà tutta della band a proseguire l'onorata carriera solo in terra madre. Peccato, davvero, perché alla luce di questo "Biosphere" Akira e soci hanno ancora qualche cartuccia da sparare (ma le quaglie sono solo e soltanto "gialle", ahimè). Comunque, fin già dalla copertina si potrebbe evincere che il sound proposto non è quello classico cui il combo nipponico ci ha abituato con la passata produzione: niente metal classico, niente sfumature melodiche di stampo prettamente americano come in "Lightining Strikes" o "Hurricane Eyes", ma apocalisse sonora, musica per zombies radioattivi risorti dalla terra contaminata da esplosioni atomiche, come se Hiroshima fosse stata sventrata ieri. L'ascia di Takasaki non è mai stata cosi satura di dolore, cosi accordata bassa e così pregna di disperazione; l'ugola di Niihara non è stata mai cosi acida ed incazzata pur sussistendo ancora qualche vecchio problema riguardo alla pronuncia in inglese). Le coordinate del nuovo stile Loudness: prendete i Sepultura, i Rage Against The Machine ed i Soundgarden (senza dimenticare papà Iommi), miscelate il tutto con idee ritmiche thrashy e diversi solo in stile classico, ed otterrete il groove definitivo. Le cadute di stile però non mancano: "Biosphere" non è un disco perfetto, è un progetto poggiato su solide fondamenta portato avanti con convinzione, ma seppur ben disegnato presenta alcune pecche ed ingenuità che non ci si aspetterebbe da una band esperta e dalla così lunga carriera. Cioè, "Hellrider" non è un nuovo brano dei Testament , e la title track non è una song mai pubblicata in "Chaos AD", così come "My Precious", non è una vittima della "Battaglia di Los Angeles": tuttavia sono brani che funzionano ed impressionano, che claudicano sul terreno bruciato nutrendosi di energia nucleare, ma c'è ancora dell'altro. Oltre ad un brano dal tiro old style ma sempre vestito con pastrano all'idrogeno ("System Crush", ben confezionato), c'è un ruffianissimo chorus sbarazzino punk-pop che non ha presa (prima caduta di stile) all'interno di un' altra prova ("The Night Is Still Young), figlia di certi brasiliani più sopra menzionati e che avrebbe fatto miglior figura se si fosse mantenuta sugli standard dei brani migliori. Ancora, il disco si chiude con una lunghissima ballad blues, "For You", circa 9 minuti di assortita prolissità senz'anima, inconcludenti, che stancano all'inverosimile ed incredibilmente non funzionale al resto dell'opera. Ma il fattore che fa abbassare di diversi punti la mia valutazione finale (e che mi ha fatto incazzare come un facocero che non troma da otto mesi), è "Wind of Tibet", una sorta di cover di "Powerslave" del nuovo millennio assolutamente imbarazzante tanto è palese il plagio. Ecco, questi sono i nuovi Loudness, nati quando la NWOBHM muoveva i primi passi ed arrivati fino ad oggi con un bagaglio carico di idee e voglia di rinnovarsi. Ma portano seco anche un po' di confusione, e stupiscono fino ad un certo punto causa scelte davvero inopportune. Se fosse stato un lavoro completo ed avesse portato avanti lo stesso mood distruttivo dall'inizio alla fine, anche la nostra biosfera si sarebbe rarefatta. Peccato, mi toccherà vivere fino al prossimo disco sperando di diventare una quaglia, e magari anche zombificarmi con la loro prossima esplosione sonora (ma esistono poi le quaglie zombie? Mah…).
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