DAMNATION'S HAMMER: Into The Silent Nebula
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09/11/2023Il terzo disco per una band è sempre quello la cui attesa è più carica di aspettative e dal quale si attendono conferme o smentite. In definitiva, è la prima grande prova che ha il potere di segnare il futuro della band e proiettarla o tra gli astri nascenti di un mercato sempre più saturo o affossarla relegandola a ruolo di promessa non mantenuta. Questa terza prova degli inglesi Damnation's Hammer vede una lunghissima gestazione e arriva a noi dopo ben sei anni dal precedente 'Unseen Planets, Deadly Spheres', disco autoprodotto e passato un po' in sordina, almeno qui nel nostro Belpaese. Il quartetto albionico, questa volta forte di un contratto con la Massacre Record, confeziona un disco composto da otto tracce scandite da un riffing heavy-doom groovy e dalle tinte fosche.
I nostri sembrano essere cultori, con somma approvazione di chi scrive, dei classici della cinematografia horror; la opener "Sutter Cane" (do you read Sutter Cane?), brano il cui sound, impreziosito da uno speech di Aaron Stainthorpe dei My Dying Bride ricorda quello dei Candlemass degli anni 2000, è un chiaro tributo a "In the Mouth of Madness" (Il Seme della Follia), celebre film di John Carpenter. Ma le citazioni "carpenteriane" non finiscono qui,"Outpost 31" ci spedisce nelle lande glaciali, scenografie del film "The Thing" (La Cosa), introdotti da un dialogo di un pilota di elicotteri sui generis, essendo niente poco di meno che il buon Fenriz, sul quale non c'è bisogno di dire altro. Il brano ha un andamento cadenzato con le chitarre del combo Preston/Farnell schierate in prima linea che sfornano una ritmica granitica ed ultrasatura. "Do Not Disturb The Watchmaker" si apre in pieno stile doom, accompagnata da un riffing dilatato che si intreccia sinuosamente con un mid tempo coriaceo. "The Silent Nebula" si presenta invece inaspettatamente come una lunga traccia strumentale di ben quattro minuti che lascia immaginare infiniti spazi cosmici con un sound che pone in risalto il lavoro solista della chitarra, con riff ora sporchi, ora limpidi e cristallini e che risente delle influenze del rock psichedelico alla Stoned Jesus, tanto per fare un nome, ma lista potrebbe essere lunghissima, e che sfuma con le parole pronunciate da un altro big del panorama musicale, Sakis Tolis dei greci Rotting Christ. Se "The Call Of The Void" appare come un brano in cui l'impeto ritmico, le bordate chitarristiche più serrate, combattono in un lungo e continuo duello con un'anima oscura che ne frena le scorribande riconducendo i nostri nei ranghi di un doom più tradizionale, la conclusiva "The Moon And The Waters Of Death", preceduta da un breve intermezzo effettistico, riporta il quartetto sui lidi più congeniali al doom di matrice nord europea, scandito da una linea vocale graffiante ma allo stesso tempo salmodica. Il disco è sicuramente godibile con suoni ben strutturati che picchiano allo stomaco, anche se non dice più di quanto sia stato già detto e fatto nel panorama doom europeo. Dispiace sicuramente leggere i nomi dei grandissimi ospiti di rilievo internazionale che qui sono ridotti a mere comparse, relegati a piccoli ruoli di "lettura". Ci sarebbe piaciuto ascoltare una collaborazione più strettamente musicale, ma magari sarà per la prossima volta.
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