CLEANBREAK: Coming Home
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09/07/2022James Durbin, dopo le esperienze coi Quiet Riot e a nome Durbin, rinnovato il sodalizio con Frontiers, prova nuovamente il sentiero marchiato Hard Rock, consolidato da forti influenze metal. Accompagnato da Mike Flyntz alla chitarra (Riot) e dalla sezione ritmica Perry Richardson + Robert Sweet (rispettivamente basso e batteria degli Stryper), è lecito e prevedibile aspettarsi un sound che richiama le due band sopracitate, e in effetti così sarà, con razioni accostabili a band quali Fifth Angel, Leathervwolf, Icon. Ennesimo progetto imbastito dalla casa discografica partenopea, dagli intenti sicuramente benevoli e dai risultati altalenanti. Che la musica sia diventata con il passare degli anni un prodotto sempre più di consumo e sempre meno proveniente da una vera e rinnovata fonte di ispirazione, è limpido e cristallino pure ai Die Hard del nostro genere. A farne le spese in mezzo a tutta questa quantità che sovente richiama al lavoro i medesimi interpreti, ne è la qualità. E anche qui parlo della scoperta dell’acqua calda… Sia chiaro, i Cleanbreak mettono sul piatto tutta l’esperienza e le capacità tecniche di cui sono dotati; i problemi nascono dalla carenza di ispirazione, talvolta, di personalità o di una qualunque intuizione in grado di elevare il disco al di sopra di una buona parte di uscite discografiche degli ultimi anni. Per quanto un oratore sia loquace, finirà prima o poi i concetti da esprimere, fino a risultare prevedile e ripetitivo. Così, a causa di un eccessiva quantità di uscite più o meno superflue o più o meno eccezionali, lo è per la musica. Tra richiami agli ultimi Stryper (“Before The Fall”, “Dying Breed”) tentativi di scrivere l’anthem vincente (“We Are The Worriors” il cui riff d’apertura è identico a quello di “We Built This House” degli Scorpions), e canzoni più aggressive ma carenti di appeal (“Still Fighting”, “Cleanbreak”), non mancano assoli tecnici e break strumentali di valore a rimembranza dei protagonisti coinvolti. E anche la prova di Durbin è al di sopra della sufficienza. In mezzo a questa bontà di intenti imperfetti, i cori di “The Pain Of Goodbye” risultano riusciti, per esempio. Esplicato ciò, rimane il fatto che un dardo non avvelenato, una volta estratto, non lascerà cicatrici permanenti. In breve, per quanto suonato bene, dubito sulla longevità di questo lotto di canzoni, come di tanti altri, in carenza di canzoni maggiormente ispirate e personali.
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