ARTENSION: Phoenix Rising
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04/07/2010A certe band capita non solo di pubblicare un album migliore del debut, ma addirittura il vertice di un’intera carriera: questo in due parole è il lavoro che andiamo a raccontarvi. E’ passato appena un anno dal frizzante debut 'Into the Eye of the Storm', uscito sotto le benedizioni di quel volpone di Mike Varney e della sua Shrapnel Records, ed eccoci di nuovo a parlare delle evoluzioni di Kuprij alle tastiere supportate dalla sua all stars band. 'Phoenix Rising' è l’album più marcatamente progressive della band americana, e già l’incedere della drammatica "Area 51" può essere un chiaro esempio di quanto asserito con gli stop and go sapientemente disseminati da Terrana, e le keys senza freni del vulcanico tastierista/songwriter ucraino. Ogni singolo componente apporta la totalità del proprio bagaglio tecnico a composizioni mai fini a sé stesse, impregnate del pathos infuso da un West alla massima potenza, che rendono il lavoro nel complesso una delizia per ogni amante del progressive power metal. La distribuzione degli up tempo e delle bellissime ballad al piano (l’introduzione di "Valley Of The Kings" parla da sola) dimostra quanto il lavoro sia frutto di un’accurata riflessione anche nella delicata fase della scelta della tracklist. Se Terrana non dimentica di essere un’autentica macchina ritmica power ("Into The Blue" è una battaglia tra le sue bacchette, i pedali e le velocissime dita del forsennato Kuprij), e il duo Staffelbach/Chown garantisce il solito apporto inappuntabile, la palma d’oro va distribuita equamente ai due autori di tutte le musiche e i testi di questo comeback: tastierista e cantante. Vitalij Kuprij conferma di essere uno dei moderni principi delle tastiere sia come tecnica, sia come gusto per la melodia e senso della misura mentre la prova di John West è semplicemente la migliore che possiate mai ascoltare del vocalist di origine indiane: feeling a piene mani, potenza, estensione (la title track, in questo senso, è addirittura impressionante) e un lirismo che lo contraddistingue ancora una volta. Il platter non presenta un filler, nemmeno la conclusiva strumentale "I Really Don't Care" (nuovo esercizio al piano di un Kuprij in vena di accenni Litziani), sorta di prosieguo di quanto già fatto nel debut, può davvero considerarsi qualcosa di sterile inserito giusto per accrescere il minutaggio. Non occorre menzionare tutte e dieci le tracce ma, se l’opener vi colpisce, sappiate che il lavoro si mantiene tutto allo stesso (altissimo) livello.
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