ALUNAH: Violet Hour
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10/12/2019Il nuovo e quinto album degli inglesi Alunah segna un nuovo capitolo della vita della band. Infatti, è il primo album senza gran parte dei membri fondatori, vale a dire i fratelli Day (Sophie alla voce e David alla chitarra), i quali hanno dato, fino a ieri, il sound distintivo della band, con quell’aura mistica, occulta e densa che ha catalizzato l’attenzione di certi appassionati dello stoner-doom. Nella band attuale, è rimasto solamente come reduce dalle origini il batterista Jake Mason, ed al posto dei Day’s sono subentrati Siân Greenaway alla voce (già presente nell’EP ‘Amber & Gold di quasi due anni fa), e Dean Ashton alla chitarra. Questa rinnovata line-up non sembra aver intaccato in maniera negativa gli equilibri e le sorti della band, tutt’altro. In ‘Violet Hour’, album che segna anche l’accordo con l’etichetta italiana Heavy Psych Sounds Records, troviamo un sound che, fin dai primi ascolti, si fa piacere e ci convince. Il lavoro di arrangiamento restituisce un sound meno fumoso e più improntato ad una certa scioltezza, rimanendo comunque nei dettami della densità stoner. La voce della Greenaway è convincente, catalizzatrice al punto giusto nella sua veste di sacerdotessa doom; e la chitarra di Ashton cerca, nei limiti del possibile e cercando di non deragliare dai binari più consolidati, di variare e di aggiungere sfumature che strizzano l’occhio al blues. In ‘Violet Hour’ ci sono molti episodi che meritano attenzione. Innanzitutto il brano di apertura, che ha fatto anche da apripista alla pubblicazione dell’album, e cioè “Trapped & Bound”, che già dalle prime note si rivela incisiva e ci mostra subito una band che vuole tornare nei piani alti della nicchia stoner-doom occulta. Più avanti si arriva, probabilmente, al brano migliore dell’intero lotto, “Hunt”, il quale ha una prima parte di concreta costruzione di un rito occulto, grazie ad un sound piuttosto sotterraneo, che sfocia nel prosieguo in una ritmica ipnotica che eleva il brano ad un livello superiore, con il verso “I am the hunt / You are my pray” che fa da supplica emozionante e che va oltre la dimensione terrena. Inoltre, spunti soddisfacenti li troviamo in “Unholy Disease”, una brano che cresce alla distanza grazie ad un riff di chitarra coinvolgente che fa scuotere la testa e che sembra adatta ad essere punto di forza in esibizioni dal vivo. E infine, nella conclusiva “Lake Of Fire”, brano che si tinge di un’atmosfera mistica, dalla quale è difficile non rimanerne coinvolti. Meno torbidi dei Windhand, e comunque meno psichedelici di band come Blood Ceremony o gli estinti The Devil’s Blood, gli Alunah tornano comunque a far parlare di sé con un album veramente concreto, che mette in mostra doti più che buone e che può destare sicuro interesse fra gli amanti dello stoner-doom. Tra i migliori della discografia Alunah.
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