IL VILE
Hardsounds incontra Maio, frontman de Il Vile, stoner-rock band di Verbania che proprio di recente ha rilasciato l’ottimo EP “La tragedia del mediocre”. Andiamo a sentire che ha da raccontarci in merito tra storie di live sotto il diluvio universale e registrazioni in presa diretta… Nella recensione abbiamo evidenziato parecchio un punto chiave del vostro modo di intendere la parola musica, ossia la passione. Una passione smisurata che vi ha spinto addirittura ad autoprodurvi. Ci raccontate dal 2006 a oggi cosa vi ha spinto a fare l’amore per la musica nel contesto de Il Vile? Il percorso della band è stato abbastanza travagliato, siamo nati dopo lo scioglimento di due gruppi (Il Vile e Semadama) e abbiamo cominciato a suonare con l’idea di fare del rock alternativo non troppo di nicchia per arrivare ad un pubblico più ampio possibile. Pian piano abbiamo cominciato a sperimentare incidendo un singolo per una compilation, con elettronica ed effetti vari, in seguito però il sound si è sempre più inasprito e siamo passati dal rock’n’roll a una sorta di post-grunge fino all’incisione del primo disco “Insonne”. I periodo successivo siamo stati due volte in tour in Spagna e abbiamo fatto molti live, ma il lavoro non ha avuto nessun riscontro mediatico. Nel frattempo prendemmo una strada che ci portò, attraverso diversi cambi di line-up, a un suono pesante e claustrofobico che si avvicina all’idea dello stoner rock vecchia scuola con sprazzi di rock alternativo italiano anni ’90 e al disco in questione. Nonostante tutto penso che non abbiamo mai mollato, perché fondamentalmente facciamo musica per il nostro piacere personale, quello che suoniamo ci rende orgogliosi e ci dà parecchia forza, sputare fuori tutti i nostri stati d’animo, salvarci dal grigiore della vita quotidiana. Siamo un’entità che si nutre delle sue stesse vibrazioni. Per questo non molleremo facilmente e continueremo per la nostra strada. Non sappiamo dove ci porterà, ma siamo certi che ne abbiamo ancora parecchia da fare. Siete tutti musicisti navigati che ormai avranno ben chiare le regole del music business. Cosa spinge una band nel 2014 ad autoprodursi a vostro avviso? Innanzitutto credo che ormai le band prodotte da etichette siano un numero minimo e purtroppo siano amici di amici o comunque gruppi con un percorso meno “libero” del nostro o ganci di chissà quale genere. Ma la verità è che tendenzialmente questo lavoro volevamo fosse documento della nostra trasformazione e specchio dell’anima della band, quindi non abbiamo messo in preventivo nessuna interferenza esterna. Abbiamo scritto i pezzi, li abbiamo registrati (in presa diretta per la maggioranza delle parti) e mixati noi, in fraterna alleanza, senza pressioni, tempistiche e soprattutto senza influenze esterne di alcun tipo. Ora sappiamo cosa siamo ed è chiaro a chi ascolta, quindi per il prossimo lavoro saremo pronti ad accettare una produzione appropriata, eventualmente. Avete suonato parecchio nel corso degli anni, calcando in alcune situazioni palchi decisamente prestigiosi. Qual è la situazione live che difficilmente scorderete? Beh, la situazione in assoluto indimenticabile è stato il mini tour in Galizia (Spagna). Siamo arrivati con l’aereo, ci hanno trattato con un rispetto quasi religioso. Abbiamo suonato all’Iguana di Vigo, dove sono passati Iggy Pop, Green Day, Manonegra, Offspring... Due giorni dopo siamo stati headliner di un festival internazionale svoltosi sotto una pioggia torrenziale. Vedere la gente che alle tre del mattino restava sotto l’acqua con i piedi nel fango ad ascoltarci, ballare e supportarci con il cuore in mano è stata una sensazione veramente potente. Il fattore live è ciò che vi porta sostanzialmente a credere ancora nella musica e a proporvi oggigiorno con un nuovo EP? Certo che sì, il fattore live è vitale per una band come la nostra. Godiamo tremendamente nel suonare live con volumi esagerati, tanta birra e sudore. Arriviamo quindi a 'La tragedia del mediocre', un titolo decisamente forte e dalla grafica vecchia scuola. Cosa volevate trasmettere con quell’immagine e quel titolo? Immagine e titolo raccontano una storia. La chitarra abbandonata sulla sponda del fiume dal “mediocre” che decide di mollare questo mondo lasciando dietro di sé il mezzo che lo ha tenuto in vita fino ad allora. Allo stesso tempo parla della perdita dei sogni e delle prospettive x il futuro e della musica che man mano sta scivolando verso dimensioni effimere. Il rock non è più la voce delle rivoluzioni sociali e culturali. Musicalmente le cose vanno decisamente in maniera diversa: ossia la vostra indole stoner rock ha avuto la meglio. A tratti mi sembra di avere a che fare coi Queens Of The Stone Age vecchia scuola, ossia quelli più rumorosi ma sempre attenti a dare una forma melodica al tutto. Come vi sembra come esempio? Potrebbe starci? Beh, è un gran complimento. Nello stoner dubito ci sarà un’altra band che arriverà a fare un percorso del livello di quello di Josh Homme e compari, una visibilità e un successo che è enorme ed esce dalla dimensione underground. Siamo sicuramente influenzati da questa band e dai precedenti Kyuss e dai Fu Manchu, ma anche da Orange Goblin, Electric Wizard, Black SabbatH... Però siamo italiani che hanno passato i 30 anni quindi sicuramente nelle nostre vene artistiche scorrono Marlene Kuntz, Umberto Palazzo Ed Il Santo Niente, Verdena, Afterhours e tutte quelle band che negli anni ‘90 hanno portato l’underground italiano ad alti livelli. La produzione in studio risulta decisamente “artigianale”, ossia avete puntato a suoni grezzi e scarni. Una sorta di suono tradizionale se pensato in ambito stoner, siete d’accordo? Che obiettivi vi eravate prefissati prima di entrare in studio? La produzione è volutamente artigianale, sia per accostarsi al trend del genere sia per stare più vicini possibile da quello che siamo nei live. Infatti è stata fatta in presa diretta per poi sovra incidere alcune parti di chitarra e voce (come si faceva una volta). Un altro fattore interessante sono testi e interpretazione vocale. Sui temi trattati non avendo l’opportunità di leggere quanto scritto lascio a voi la parola, mentre la seconda è decisamente southern e calda nelle tonalità proposte. E’ stato complesso muoversi vocalmente parlando su linee sonore così dirette? Dunque, mi trovo sempre un po’ a disagio nel termine southern perché lo riconduco a un genere storico che non mi rappresenta (me lo hanno scritto in più di una recensione) ma ora grazie a questa domanda ho compreso che si tratta di alcune sfumature calde nelle tonalità. Quindi grazie per avermi chiarito le idee. Detto ciò non è stato difficile muoversi con la voce su questi pezzi, perché ho sempre scritto in italiano e ascoltato parecchi generi musicali, ma soprattutto sempre fatto musica “mia” quindi con un approccio istintivo con la stesura dei pezzi. Suoniamo i giri e il cantato viene fuori da solo, in modo naturale. Per i testi è diverso, sono lievemente terapeutici per me… Sono intimi ma allo stesso tempo proiettati verso la società, si passa da “Funeral girl” che parla delle sensazioni provate nel perdere la persona amata passando per “La ballata della grappa tecnica” che parla del legame profondo tra persone come noi e l’alcool, “Resa cinerea” che parla della falsità, “Koma elettrico” che tratta il tema degli psicofarmaci ma allo stesso tempo della necessità di sopravvivere gettando però un interrogativo sul fatto che la sopravvivenza potrebbe a volte essere uno sforzo inutile.
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