WHISKEYCOLD WINTER: Cosmic Hangover
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12/04/2016I Whiskeycold Winter sono una band che senza fare troppi proclami plateali, marcia dritto verso l'obiettivo prefissato con un ordine ed una coerenza che non si riscontrano spesso. E' una band a cui semplicemente non interessa nulla, eccetto fare rock e farlo alla vecchia maniera. Il quartetto ha emesso i primi vagiti nel 2009, e fino ad oggi si è "reincarnato" più volte, cambi parziali di line-up e un sound che negli anni si è affinato sempre di più, arricchendosi di sfumature e aggiunte personali. Oggi danno alla luce questo primo EP 'Cosmic Hangover' che segue le due demo rilasciate nel 2011 e nel 2013, rispettivamente 'Black Water and Clearsmoke' e 'Demons Vol.II' che avevano offerto un primo antipasto a tutti quelli che non hanno potuto ascoltarli dal vivo nelle varie esibizioni sparse per la Campania e non solo. Il disco rappresenta l'essenza dei Whiskeycold Winter, un misto di southern rock, folk e blues che affonda le radici negli anni '70, il tutto condito da una venatura stoner più moderna e da un tocco di psichedelia. Gli elementi ci sono tutti, dalla voce calda del sud di Simone Pennucci, alle distorsioni sature, cupe e riverberate della sua sei corde e di quella di Pietro “Trinità” La Tegola che si lanciano spesso in duelli solistici alternati. Il disco si apre sulle note di "Fishman Child", brano torrido come il deserto, con un'arpeggio molto "country" che ci fa respirare la pura essenza del sud degli Stati Uniti. Non mancano i momenti più intimi e atmosferici, dove il gruppo dimostra di sapersi destreggiare anche creando interessanti melodie come in "The Shadow Line", forse il pezzo che raggiunge il picco emozionale massimo del disco, con una interessante linea di basso che non si limita ad uno sterile accompagnamento, ma si rende protagonista, così come la linea di batteria affidata a Roberto Liotti che forse viene penalizzato solo dalla produzione che non gli riserva il posto che meriterebbe. Ma è negli ultimi due pezzi dell'EP che la band dimostra di aver fatto il passo avanti, di essere maturata nella composizione e negli arrangiamenti. "Doomsday Roses" paga il suo tributo all'hard rock più classico, la scelta dei suoni di chitarra, specie nell'intro è azzeccatissima, e il pezzo si pone come un'anthem il cui ritornello rimane in mente ed è fatto per essere cantato in sede live. Ma forse la perla del disco è l'ultima traccia, "Space Beggar", vero viaggio cosmico a bordo di un caravan carico di emozioni, feeling, groove. In questo pezzo c'è tutto, la dolcezza, l'amore, l'abbandono, la ricerca di una dimensione dove regna l'ebrezza dei sensi. Le chitarre si inseguono dolci in arpeggi melodici e in una sognante e quanto mai azzeccata armonizzazione finale, il tutto accompagnato dalla voce narrante di Simone Pennucci e dal coro lacerante del bassman Emanuele Musella. In questo pezzo, più che negli altri si sente l'influenza psichedelica e la componente di matrice doom settantiana. Giunti al termine di questo viaggio cosmico non possiamo che ritenerci fieri e soddisfatti del fatto che una città come Napoli, forse non tra le più avvezze al genere, abbia partorito un gruppo con tali caratteristiche compositive, capace di coinvolgere in sede live e soprattutto di portare avanti un discorso musicale in maniera coerente,mettendo da parte le patinature e gli orpelli che troppo spesso ammantano gruppi che propongono generi affini. E scusate se è poco!
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