OPETH: BLACKWATER PARK
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26/11/2005Il quinto album del quartetto svedese è forse quello che ha contribuito maggiormente all'affermazione della band a livello mondiale e che ha permesso ad Åkerfeldt e soci di godere di quella visibilità che già avevano sfiorato col precedente "Still Life", ma che avrebbero sicuramente meritato anche anni prima. La consacrazione arriva dunque grazie a questo lavoro oscuro ed enigmatico, in cui toni onirici e soffusi si alternano a soluzioni più corpose e tormentate, ma dove non sembra mai esserci serenità: qui tutto è opaco, indefinito e distorto da un sentimento misto di sofferenza e rassegnazione. Non c’è luce negli accompagnamenti acustici delle due chitarre, non c’è più traccia di quel calore, di quella passione che invece possiamo riscontrare nel precedente album. Le melodie di “Blackwater Park” sono echi lontani che arrivano a noi attraverso nebbie impenetrabili, capaci di sottrarre forza vitale al suono degli Opeth e lasciandoci quindi brani dalle tinte più abuliche e più difficilmente assimilabili al primo ascolto. L’aspetto per così dire diafano che caratterizza per buona parte questa nuova fatica targata Opeth non è però nulla per cui scandalizzarsi, ma semplicemente un nuovo passo in avanti nell’inarrestabile processo evolutivo del combo scandinavo. Qui i nostri hanno voluto dar vita ad un album freddo, distaccato, per certi versi apatico e ci sono riusciti pienamente. “Harvest” è forse il pezzo più rappresentativo di quanto detto fin’ora, anche in considerazione di un testo che non lascia adito a dubbi di alcun tipo: “Into the orchard I walk peering way past the gate Wilted scenes for us who couldn't wait Drained by the coldest caress, stalking shadows ahead Halo of death, all I see is departure Mourner's lament but it's me who's the martyr” Senza dimenticare “The Drapery Falls”, perfetta nella sua drammaticità, “The Leper Affinity” e la stessa title track, pezzi intriganti che contribuiranno ad allargare ulteriormente la schiera di fan degli Opeth.
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