BALANCE OF POWER: HEATHEN MACHINE
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22/11/2003Ci sono due importanti novità in questa ultima fatica in studio della band inglese: un indurimento del sound rispetto ai precedenti lavori, e l'avvicendamento di Lance King con John K. Entrambe le novità suscitano un certo interesse perché si tratta di cambiamenti sostanziali che, pur sempre lasciando intatta la vena creativa di matrice classica, rendono riconoscibile il lavoro di Tony Ritchie e compagni. John K. è davvero una scoperta sorprendente, a mio avviso migliore di King soprattutto quando svetta con l'ugola verso le tonalità più alte tanto che farebbe rosicare le unghie anche alla leggenda Tate (che spesso lo ricorda, ma paragone con le dovute differenze). Molto completo, riesce ad interpretare tutte le sfumature dei brani senza sbavature e, soprattutto, senza quasi sforzarsi più di tanto, frutto di una voce impostata ma allo stesso tempo naturale. Il sound è diventato più pesante, sia come concetto in fatto di durezza (la chitarra distorce spesso e volentieri e le ritmiche, anche se ancora una volta Hicks opta per la drum machine pur essendo un batterista "vero", sono più serrate, dirette e martellanti) sia come esasperazione delle atmosfere che si riscontrano nei brani, più aspre e cupe ed incazzate. "The Rising", la song d'apertura, è un buon esempio di come queste novità siano apertamente e volutamente manifestate, cosi come in "Chemical Imbalance", drammatica ed a tratti opprimente. Praticamente i Balance Of Power continuano il loro cammino producendo disco dopo disco uno stile sempre più personale, partito dall'esordio quasi Aor di "When The World Falls Down" fino ad arrivare a questo "Heathen Machine", chiara espressione di come si possa suonare moderni specchiandosi nel tempo in cui si vive ma con l'ombra mai di troppo delle sonorità storiche della scuola hard britannica. Un appunto ed una lode per finire: magari un maggiore sfoggio di melodie avrebbe reso il disco più scorrevole e per certi versi vario e più accattivante. La lode risiede proprio dove riescono nell'intento di conciliare quanto ho evidenziato nell'appunto, cioè in "Wake-Up Call", lunghi otto minuti di cavalcate e melodie e dissonanze e rabbia in cui John K. dà il meglio di se ora sfiorando il cielo, ora volando basso.
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