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SOULSPELL: The Labyrinth Of Truth

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30/09/2010
66


Genere: Power/Melodic metal
Etichetta: Inner Wound Recordings
Distro: Connecting Music
Anno: 2010

Come un novello Lucassen (l’uomo dietro a mille progetti musicali), o forse meglio come un Sammet meno navigato, il batterista brasiliano Heleno Vale torna a raccontarci le gesta dei suoi Soulspell che, come ogni metal opera band comanda, non sono quelli del debut 'A Legacy Of Honor' del 2007. La grossa differenza rispetto al passato è sicuramente il budget a disposizione notevolmente aumentato, al punto da garantire al progetto di Vale grossi nomi del metal mondiale come Edu Falaschi (Angra, Almah) o due ex-membri dei Savatage come Zak Stevens e John Oliva (di questi tempi più prezzemolino che mai per la gioia dei suoi tanti estimatori). Il genere suonato è un power metal ora più melodico e da classifica, ora più epico e a tratti orchestrale, sorretto dalla prova maiuscola di guest importanti coadiuvate da voci meno note (e più incolori) di bands della scena brasiliana. Prima di giungere alle dolenti note mi preme segnalare autentici cavalli di battaglia come "Amon’s Fountain" (debitrice degli ultimi Kamelot e che, dalla sua, ha un ficcante intrecciarsi di potenti male e female vocals che intessono nel chorus una melodia indimenticabile), e "Into The Arc Of Time" che all’attacco del malefico vocione di John Mountain King Oliva vi farà provare più di un brivido, e che si fregia di stratificazioni vocali degne dei migliori Savatage (sarà per questo che troviamo nella stessa traccia anche le calde vocals di Stevens?). Quello che affossa un lavoro ben prodotto, ottimamente confezionato (a lavoro nomi come J. P. Fournier e John Avon celebri illustratori delle covers di Edguy, Avantasia nonchè delle cards di Magic), e pieno di buone canzoni è la disomogenità del platter: si passa da una power heavy song a sonorità in puro stile…U2! Il duetto di "Adrift" tra Daisa Munhoz Lucas Martins, pur valido come tutta la canzone, non c’entra nulla con una metal opera di chiara matrice power/epic, e la successiva "The Verve" si apre come una pop song da classifica di una tipica singer americana (poi, è vero, c’è una sorta di ritorno all’ovile, ma lo stupore permane), mentre l’album si chiude con una traccia tuning (immaginatevi a girare la manopola di una radio sintonizzandovi su stazioni che trasmettono i generi più disparati). L’altro grosso limite è il fatto che le buone composizioni di Vale riescono ad emergere quasi sempre solo grazie all’interpretazione degli ospiti più importanti rimarcando quanto alcuni di loro siano troppo debitrici delle discografie delle bands alle quali appartengono (Angra, Savatage, Hangar).

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