PEARL JAM: Dark Matter
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29/04/2024Ad ogni nuovo lavoro dei Pearl Jam l’attesa è alta, così come le aspettative. E’ normale, considerando la caratura e l’importanza della band capitanata da Eddie Vedder, così come è abbastanza comprensibile che la fanbase si spacchi, tra chi giudica ed eventualmente apprezza i dischi più recenti considerando l’età dei componenti che avanza, e chi invece vorrebbe qualcosa di più allineato, stilisticamente e qualitativamente, ai primi lavori della storica band statunitense. Ecco che quindi anche i PJ optano per assumere il produttore del momento, quell’Andrew Watt fautore dei ritorni alle origini arricchiti da un tocco di modernità che non guasta (vedi alla voce ‘Hackney Diamonds’ degli Stones), anche se Watt proprio un estraneo non è, essendosi già occupato dell’ultima fatica solista di Vedder, ‘Earthlings’. Alla scrittura dei brani stavolta collaborano anche lo stesso Watt ed il nuovo membro Josh Klinghoffer, ex sostituto di John Frusciante nei Red Hot Chili Peppers che qui cofirma la ballad “Something Special”, dedicata dal buon Eddie ai propri figli e forse più allineata sonoramente ad un suo episodio solista che non a un disco degli autori di ‘Ten’. Ma come suona complessivamente questo ‘Dark Matter’? E’ presto detto: come da ormai tradizione “wattiana”, sia vecchio, sia nuovo. Impossibile un completo ed inequivocabile ritorno al sound delle origini (stiamo comunque parlando di musicisti ora sessantenni o giù di lì), i Pearl Jam si sono ritrovati di nuovo tutti insieme in studio di registrazione (allo storico Shangri-La di Malibu, per tre settimane nel 2023) ed i diktat di Watt sono stati pochi, ma essenziali: scrivere la quasi totalità dei nuovi brani direttamente in sala, rimettere Mike McCready al centro del villaggio e sguinzagliare finalmente Matt Cameron dietro le pelli. Il risultato è un disco che suona nettamente più fresco del pur buon precedente 'Gigaton' (sottovalutatissimo ed ingiustamente bistrattato), un ritorno all’essenzialità già ben rappresentato dalla titletrack e lead single, che non a caso si apre con un Cameron infuocato ed in piena modalità Soundgarden, ed un McCready che dopo aver macinato un riff insistente ed essenziale chiude con un solo sparato fuori come ai bei vecchi tempi. E’ davvero tutto così? No. Dopo una doppietta iniziale in pieno stile PJ (“Scared Of Fear” e “React, Respond”, quest’ultima davvero ottima), il terzo singolo “Wreckage” rallenta e recupera due grandi amori di Vedder, R.E.M. e Tom Petty, per un ottimo risultato finale. “Won’t Tell” è un pop rock cristallino che potrebbe alienare un attimo la fan base storica, ma ha una melodia talmente bella da potersi ritagliare un piccolo spazio tra i classici della band statunitense, e si candida ad eventuale quarto estratto e hit del disco. Se il secondo singolo “Running” (punk rock fatto e finito che richiama alla mente “Lukin’”), e “Got To Give” (che tra le righe richiama alla mente “Given To Fly”), fanno del semplice e diretto i propri marchi di fabbrica, “Upper Hand” è la perla dell’album, con una struttura maggiormente complessa rispetto agli altri brani ed il suo viaggio sonoro tra mondi distanti, ma qui magicamente conviventi (si va dall’omaggio agli U2 nell’intro, ai Floyd fino agli stessi PJ del crescendo finale), mente “Waiting For Stevie” è un puro e risuscito tributo ai Soungarden. La densa e riflessiva “Setting Sun” chiude un ottimo disco, probabilmente il meglio che si possa chiedere ai Pearl Jam in questa fase di carriera. Con buona pace di chi chiede quello che probabilmente, ormai, è impossibile.
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