MANILLA ROAD: THE DELUGE
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23/02/2005Il successore di "Open The Gates" è il quinto disco dei Manilla Road, e come il suo predecessore si rivela un nuovo manifesto di drammatico e stregonesco epic metal, come solo i Manilla Road sono stati in grado di fare. Stavolta il tiro è piuttosto diverso da quanto fatto in precedenza dalla band: il mastermind Shelton sembra voler sperimentare nuove trovate compositive che spingono la band verso nuovi orizzonti di complessità e raffinatezza, ma anche verso una maggiore "estremizzazione" del sound che troverà compimento con le sfuriate thrash del successivo "Mystification". Il suono ancestrale e cupo dei Manilla Road è infatti ancora più poliedrico che in passato, allontandosi definitivamente dai retaggi hard di "Crystal Logic" e buttandosi a corpo morto sulle sonorità al limite del doom e sui riff sepolcrali che avevano già reso inconfondibile la band di Wichita. Dalla terremotante opener "Dementia", in cui la piovra Randy Foxe fa letteralmente il bello e il cattivo tempo giostrandosi in una serie di violentissime raffiche di batteria, capiamo infatti che avremo a che fare con un disco molto meno diretto dei suoi predecessori, sebbene possa sembrare il contrario dalla brevissima durata di canzoni elementari e immediate come "Hammer of the Witches" o "Divine Victim". Questo presumibile "ritorno alle origini" infatti non fa altro che infittire il mistero in un disco che potrebbe non ammaliare al primo ascolto, proprio per questa sua alternanza di momenti serrati a partiture più riflessive ed evocative. Ma una volta che vi sarete abituati a questa inusitata alternanza di riff oscuri e arpeggi abbacinanti, "The Deluge" vi rapirà nel suo mondo di antiche e terrificanti mitologie, di battaglie perse e affogate in fiumi di sangue da necromanti spietati e invincibili, di vittime divine, ombre nell'oscurità e morbosi tabernacoli. Un mondo dipinto a tinte variegate da canzoni tra loro diversissime come l'epicissima "Taken By Storm", che inizia come una fanfara per concludersi in un olocausto d'acciaio, oppure la profetica e violenta "Friction in Mass", inno di un'umanità prossima alla fine. C'è spazio persino per il delirante solismo strumentale in "Rest in Pieces" e per gli inquietanti synth di "Morbid Tabernacle", che fungono da introduzione per la leggendaria e maligna "Isle of the Dead". Personalmente mi sento però di proclamare apice assoluto di questo disco l'ottava traccia, la title track "The Deluge". L'immortale leggenda del Diluvio viene narrata dapprima con un suggestivo arpeggio, uno dei più belli mai scritti dalla band, che vede poi le sue note reinterpretate da un riff puramente epico, doverosa introduzione alle bordate chitarristiche che dichiarano la caduta di Atlantide in un crescendo di epicità e terrore, per concludersi con un nuovo, suggestivo e sulfureo arpeggio acustico, sempre più soffuso fino a lasciare soltanto funebri campane a decretare la fine del Mito... "After me, the Deluge...". Raramente si è potuto assistere nella storia del genere a un brano di siffatta bellezza, e questo è poco, perchè ogni singolo riff, ogni assolo, ogni verso intonato da uno Shelton ispiratissimo, ogni secondo di questi otto minuti è purissima epicità da consegnare ai posteri. Non che il disco funga da contorno a questo esaltante capolavoro, ma le altre canzoni sembrano quasi preparatorie, sembrano accennare ad ognuno dei momenti trattati appieno nella durata dell'indimenticabile Diluvio, rendendo l'intero disco una vera e propria cosmogonia di metallo epico. Difficile non lasciarsi rapire.
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