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AYREON: THE HUMAN EQUATION

data

24/05/2004
75


Genere: Prog
Etichetta: InsideOut
Anno: 2004

Il nuovo lavoro del polistrumentista e compositore olandese. Probabilmente il più ambizioso, viste la durata e la materia trattata: non fantascienza come nei precedenti lavori, ma realtà. Praticamente, un uomo in coma dopo un incidente che in quella dimensione scandaglia le sue emozioni e la sua esistenza. Ma, altrettanto probabilmente, non è il suo miglior lavoro, nè opera meritevole di lodi sperticate e di valutazioni da panegirico classico. Siamo dinanzi si ad un disco perfettamente prodotto, suonato magistralmente, arrangiato in modo straordianrio e ben curato in fatto di concept, ma alcuni difetti, a mio modo di vedere non secondari, minano l'effetto finale riducendolo ad un buon lavoro. Il che, per un'opera importante ed intrigante quale vorrebbe essere "The Human Equation", considerata anche la mole di lavoro e gli sforzi di produzione, è una magra consolazione. Minutaggio vastissimo, oltre cento minuti di musica in cui Genesis e Pink Floyd(spudorato il sequencer nella parte finale di "Day Two: Isolation" e non solo), e qualche generazione prog a venire, si scambiano e miscelano le rispettive discografie, il doppio CD ha una pecca di base fondamentale: le interpretazioni vocali - punto cardine del disco - dei vari pezzi grossi presenti(LaBrie, Clayton su tutti) sono poco più che mere apparizioni: buone prestazioni ma niente di più, niente che esalti e che possa far gridare alla mirabile esecuzione. Ed il carisma non basta a dare il taglio oppurtuno che la situazione richiede. Degli allori non sappiamo cosa farcene. I brani, poi, sono troppo incentrati su colloqui a più caratteri. Esagerazione presente in quasi tutte le composizioni in cui più singer intervengono e lasciano la singola canzone sfaccettata, sacrificata troppo all'idea di base del concept che al brano stesso. Cosa che alla lunga stanca, e si ha la sensazione di trovarsi al cospetto di un esercizio di stile piuttosto che un dramma lirico quale aspira ad essere. Sicuramente una durata inferiore avrebbe giovato al computo finale. Un grande concept, per capirci, necessita di grandi, singole canzoni per essere grande nel suo insieme. L'intera opera è percorsa da un certo mood di base in larga parte dismesso, cerebrale, quasi comotaso, ed in questo Lucassen ha il merito di avere ben trasportato la condizione che il suo personaggio principale sta vivendo, ed assecondato, poi, da progressioni che spaziano dall'acustico all'uso massiccio di synth suggestivi ma spesso fin troppo derivativi. Anche se, indubbiamente, i super ospiti strumentisti(Ken Hensley, Martin Orford ecc.) se la cavano meglio rispetto ai rispettivi colleghi dietro al microfono, come meglio se la cava lo stesso Lucassen, il quale si sobbarca una enorme quantità di lavoro. Comunque, va premiato il coraggio che da sempre contraddistingue l'artista fiammingo. Coraggio che ancora una volta lo porta ad essere uno dei personaggi più meritevoli di considerazione ed ammirazione.

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