NILE
“Mi trovo all’Inferno”: se un passante si fosse trovato ad entrare per puro caso al Largo Venue durante l’esibizione dei Nile, il suo primo pensiero sarebbe stato questo. Niente di mistico, per carità, parliamo di un inferno fatto di suoni poderosi, violenti e velocissimi che hanno arso vivi tutti i presenti. Un supplizio volontario e piacevolissimo, ovviamente. Ma riavvolgiamo il nastro e partiamo dall’inizio. Ad aprire la serata c’erano gli In Element, una death metal band argentina che non siamo riusciti a vedere a causa del solito mix velenoso orari di lavoro/traffico romano. Ma siamo arrivati in tempo per i Krisiun, storica band brasiliana porta-vessilli di sonorità brutali ed estreme. Qui, infatti, si passa dal death classico a una sua versione più veloce e brutale. Al momento dell’'ingresso in sala siamo stati travolti da un sound compatto e tagliente, e da volumi davvero, davvero elevati. Anche troppo, a esser sinceri. Solitamente il buon metallaro può lamentarsi di volumi troppo bassi andando a un concerto, ma in questo caso c’è chi ha rimpianto dei tappi per le orecchie. Anche degli ortaggi sarebbero andati bene per proteggere i timpani, considerando i decibel, come nei manga giapponesi. Per fortuna i volumi di cui sopra veicolavano musica di grande qualità e di enorme impatto. Sono passati diversi anni dall’ultimo live dei Krisiun a cui avevamo assistito, ma come per il buon vino si può dire che i deathster carioca non hanno fatto altro che migliorare. La formazione a tre, quando si tratta di metal estremo, non è forse mai la soluzione top – soprattutto in fase di assolo, quando viene meno la robustezza del suono - ma questi son gusti personali probabilmente. La band capitanata dai fratelli Kolesne, attiva dal 1990 e con dodici album sul curriculum, attinge qua e là dalla discografia presentando anche brani meno noti e appartenenti alla discografia più recente. Sempre con un notevole apprezzamento da parte del pubblico. Un Alex Camargo (il cantante, ndr) anche molto caloroso ha più volte ringraziato i fan per il supporto alla scena - soprattutto quella underground - che, senza il loro grande affetto, non sarebbe riuscita a sopravvivere a questi ultimi anni di tormenti per la filiera concertistica (a causa della pandemia). Terminato lo show del trio di Porto Alegre ci si prepara alla materializzazione sul palco delle divinità brutal death americane e dalle sonorità egizie che rispondono al nome di Nile. Anche in questo caso per chi scrive sono passati diversi anni dall’ultimo loro concerto, infatti nel frattempo la formazione è cambiata per metà. Il fondatore Karl Sanders (chitarra e voce) e il veterano George Kollias (batteria) sono accompagnati adesso da Scott Eames (chitarra e voce) e da Julian David Guillen (basso) – qualcuno aggiorni la versione italiana di Wikipedia, please. Quanto peserà l’assenza dell’ex frontman Chief Spires? Questa la domanda d’obbligo per chi non assiste a uno show della band di Greenville da qualche tempo. Domanda legittima, considerato il peso iconico e il carisma dello storico cantante/bassista. Ebbene, la risposta è: pochissimo. Inaspettatamente i “vecchi” sono stati sostituiti dai “nuovi” in maniera impeccabile. Un casting azzeccatissimo ha consegnato alla band figlia del Nilo due performer giovani ma tecnicamente mostruosi. Non solo, anche assolutamente disinvolti, partecipi e gasanti. Specialmente il biondissimo cantante dalla fisionomia scandinava, che abbina egregiamente growling e screaming a una scioltezza di esecuzione sulle sei corde che è a dir poco impressionante. Aggiungete l’impeccabile drumming di Kollias e i riff sfornati alla velocità della luce da Sanders ed otterrete la formula per il technical brutal death perfetto, definitivo. Davvero non so se i Nile abbiano dei rivali al mondo, nel loro genere. Il muro di suono che la banda originaria della Carolina del Sud erge sul palco del Largo Venue è impenetrabile, massiccio, granitico. E’ una muraglia tutt’altro che statica, però: avanza verso il pubblico e lo schiaccia, ipnotizzandolo come farebbe il più subdolo dei serpenti (animale ampiamente presente nell’iconografia dei Nile). La loro violentissima setlist – anch’essa ibrida tra novità e grandi classici – e i volumi demoniaci contribuiscono a ricreare quella sensazione di girone infernale di cui parlavamo all’inizio del report. Quali i brani che ci hanno impressionato di più? Difficile scegliere. “Call to destruction” in primis, vero e proprio inno – evocativo, epico e mortifero. Certamente anche “Vile nilotic rites”,“Kafir” e “Lashed to the slave stick”. Su tutte, com’è giusto che sia, la conclusiva “Black Seeds Of Vengeance”, che scatena il pogo più sfrenato e mobilita anche il collo più rigido obbligandolo a un headbanging forsennato. Cosa ci portiamo a casa? Il calore di una serata di onesto e fragoroso death metal, e la certezza che i Nile appartengono all’élite di uno dei generi musicali più estremi al mondo. That’s it.
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