HEAR THE CHANGE FESTIVAL
Piccole realtà crescono, ma sono quelle piccole realtà che hanno la ferma ambizione di diventare grandi in futuro, agendo esclusivamente sulla passione per il proprio lavoro, e sull’apertura verso nuovi mondi tutti da esplorare. Antigony Records sta cercando di imporsi quest’anno come una tra le più interessanti label che propone musica underground di qualità, con la scoperta di gruppi italiani emergenti, ma di grande valore, e che grazie alla parallela Antigony Agency sta cercando di mettere in moto una struttura che possa organizzare eventi con band sia italiane che internazionali, allo scopo principale di diffondere l’underground pieno di positività in Italia, soprattutto in luoghi dove la musica live, rispetto alle grandi città, è una realtà ancora in fase di evoluzione. Consci delle proprie potenzialità e responsabilità, il team di Antigony ha deciso di organizzare un evento di impatto, che segue alla lettera il loro motto fondamentale: quello di sentire il cambiamento. E la scelta del nome del festival organizzato sabato 21 ottobre all’Argo16 (ex Spazio Aereo) di Marghera (VE), location molto interessante con un’ottima acustica e ottimi impianti, posta all’interno di un contesto urbano dal fascino grigio della vocazione industriale, è stata pensata in un attimo: Hear The Change Festival. Un festival dedicato quasi esclusivamente alle sonorità post-rock ed emozionali che tante suggestioni e brividi lungo la pelle emana, grazie a quei suoni tanto riflessivi ed interiori, quanto liberatori ed esplosivi. E le band che hanno partecipato hanno risposto assolutamente “presente” a questa riunione che, per essere la prima edizione e per suonare in una zona non facilmente raggiungibile, ha raccolto una quantità importante di gente, con la consapevolezza che si possa migliorare in futuro. Anche dal punto di vista dell’organizzazione e della strutturazione delle band sul palco, effettivamente c’è ancora qualcosa da puntellare: per esempio, cercare di dare più spazio alle band di esprimersi a dovere, dato che hanno dovuto rispettare in maniera piuttosto perentoria la timeline prefissata, che li ha costretti a suonare mezz’ora ciascuno (qualche band anche qualche minuto di meno), ad eccezione degli headliner, e cercare quindi di dare più spazio alla musica come libertà di espressione e di condivisione di emozioni. Per ora sono solo dettagli di un evento comunque riuscito, che ha ancora ampi margini di miglioramento.
Il festival non poteva che iniziare con l’esibizione delle band di casa Antigony. Dapprima i padroni di casa Thalos che, dotati di illuminazioni ben studiate e supporti video che fanno parte integrante della loro musica, hanno espresso in piena regola il loro post-rock dalle tinte minimali e semplici, una band che preferisce non strafare e non cercare arpeggi articolati e sensazionali, e che punta invece sulla diretta semplicità che rende efficace e piacevole la loro proposta.
A seguire, i viterbesi The Chasing Monster, la prima band a sottoscrivere un accordo con Antigony Records, che ha pubblicato il loro strepitoso debutto discografico, e che in questa sede viene purtroppo un po’ spezzettato per le già citate ragioni di tempo, proponendo alla fine solo tre brani di ‘Tales’ e snaturando il concezione di concept-album quale in effetti è. Nonostante tutto, senza aver effettuato il soundcheck hanno dimostrato di avere qualità da vendere, con il trittico di chitarre a comandare le sonorità ed a dirigere il pubblico presente verso atmosfere dense di stellata intensità.
Dopo di loro, iniziano le esibizioni delle band ospiti, e si rimane in Italia con gli emiliani Valerian Swing, che confermano di essere una band che dal vivo produce esplosioni sonore al limite del dinamitardo, con David Ferretti a pestare duro con la sua batteria che sembra sempre lì lì per lasciarci le penne, ma che ogni volta strenuamente resiste come il migliore degli incassatori sotto gli assurdi colpi inferti. E il loro post-rock pieno zeppo di sonorità math e noise risulta sempre vario e virtuoso, con la chitarra di Stefano Villani ad intessere striscianti note con disarmante naturalezza e vigore, affiancate da percorsi tastieristici e di synth talvolta spiazzanti, ma seriamente espressivi. Un’espressività che la band dal vivo assume come caratteristica essenziale per essere seguita con un certo ed incessante interesse.
E’ la volta ora di passare al lato internazionale del festival, percorrendo la Francia dei superbi Lost In Kiev, una band che dapprima con il bellissimo ‘Motions’, e poi con l’altrettanto piacevole ‘Nuit Noire’, si sono permessi di realizzare un post-rock emozionante e profondo, a cavallo tra linee leggiadre e battiti di pesante intensità che arrivano diretti al nostro corpo. In questa sede, mettono in prova una performance convincente sotto tutti i punti di vista: emozionante, trascinante, assolutamente vincente nella loro caparbia ricerca di far fluttuare l’ascoltatore guidandolo in un mare di sensazioni, lungo correnti multi-direzionali. L’acquisto dei loro album è sembrato ovviamente d’obbligo, per continuare ad assumere nella nostra mente gli influssi energici del loro sound che sono un vero toccasana per il nostro spirito.
Ci si sposta poi nel Nuovo Continente, alla ricerca dei suoni prolifici che dal New Jersey arrivano a noi grazie al contributo che danno i giovani Vasudeva, che al contrario dei loro lavori in studio dove effettuano sonorità classicamente post-rock ma che lasciano qualche punta di perplessità ed indifferenza, dal vivo si vestono di un’altra linfa e si dimostrano più potenti ed incisivi, seppur non particolarmente originali e ricchi di spunti che li personalizzino in maniera prepotente rispetto ad altre realtà del genere. Fatto sta che comunque vengono convintamente apprezzati proprio per la loro potenza sonora, che rende comunque vitale il contatto con il pubblico e permette loro di esibirsi con brio.
Veniamo poi ad una band veramente sorprendente, scoperta da pochissimo ma in grado di emanare fulmini e saette a getto continuo. Da Brighton, UK, arriva il power trio dei Physics House Band, una band che non attua le tipiche sonorità post-rock, bensì percorre territori vicini alla musica sperimentale, al free-jazz, fino al noise più viscerale e fulmineo. Accompagnati da scene cinematografiche dal sapore fortemente surreale e grottesco, i tre sciorinano una performance devastante, una mezz’ora di musica sventagliata a rotta di collo, dove percorrono brani tratti soprattutto da quel concentrato di follia senza limiti che è ‘Mercury Fountain’, e che sputano dal palco senza soluzione di continuità. Ad un certo punto il batterista Dave Morgan prende in mano le redini del discorso e fa ballare le sue bacchette a velocità che noi umani difficilmente possiamo immaginare, e i compagni vanno al suo seguito con grande naturalezza, accompagnandolo a suon di synth e di chitarra. Performance da applausi a scena aperta e da pugni alzati al cielo.
Dai ritmi forsennati dei Physics House Band, si passa al post-rock raffinato dei polacchi Tides From Nebula. Reduci da un concertissimo come quello di una settimana prima al Circolo Gagarin di Busto Arsizio (VA), i quattro polacchi non si smentiscono assolutamente e propongono la loro musica fatta di sudore, riflessione, potenza e pensiero interiore, come pochi altri come loro sanno fare. Ecco, questa è un’altra band che, date le sue potenzialità e la prolifica discografia, risulta piuttosto penalizzata dal limitato minutaggio; almeno un paio di brani in più avrebbero fatto sicuramente comodo per poter apprezzare ancora di più e saziarci maggiormente della loro musica. Fatto sta che abbiamo assistito comunque ad un set privo di sbavature, con una band in ottima forma che quando c’è da far scaldare i cuori risultano ficcanti come un coltello caldo nel burro, e quando c’è da pigiare sull’acceleratore, è un tumulto senza freni, come testimonia il coinvolgimento collettivo durante il brano conclusivo "Tragedy Of Joseph Merrick" (tratto dal disco d'esordio 'Aura' del 2009), in cui i chitarristi Maciej Karbowski e Adam Waleszynski scendono dal palco a bombardarci di schitarrate senza ritegno e scapocciare insieme a noi.
Loro sono l’ottimo preludio per lo show finale degli australiani Sleepmakeswaves, gli unici ad avere un minutaggio degno di un headliner, ed è uno show che dall’inizio alla fine è un concentrato di vigore, impatto, forza e convinzione, che non risparmia nessuno ed è assolutamente pieno di vitalità. Al centro del palco, Alex Wilson ed il suo basso si mette al timone del gruppo e ci direziona come un incantatore. Ai suoi lati le chitarre di Otto Wicks-Green e Daniel Oreskovic sfoderano potenti note cariche di tensione elettrica, ed alla batteria Tim Adderley, non curante dei suoi piedi scalzi, infierisce colpi come se non fosse un domani. Una performance che è un fascio di luce continuo, un disseminarsi di scariche elettriche che ci colpiscono ovunque, e dove il livello di soddisfazione è talmente elevato che sembra non voler essere mai sazi. Se i Tides From Nebula fanno dell’elegante e raffinata carica rock il loro tratto distintivo, gli Sleepmakeswaves partono già in quinta marcia e percorrono senza sosta strade infinite, solcando la strada viaggiando all’ennesima potenza. Uno dei set migliori dell’anno in assoluto.
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