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ARABROT

Per una band cosa potrebbe essere più deprimente di un lutto? Un concerto con 25 spettatori presenti. Avendo assistito a questa specifica scena, una domanda ci è sorta spontanea: quanto la professionalità possa sopperire al senso di frustrazione che si prova nel vedere praticamente nessuno (in una metropoli come Roma) che assiste al proprio show?

Negli Arabrot vincono le motivazioni, quelle che li spingono ad andare avanti; quelle che gli fanno proporre senza risparmio un mix di industrial swans-iano, post punk sperimentale alla PIL e noise sul quale si stagliano le tastiere vintage che virano da passaggi kraut, ad altri orrorifici, accompagnate da coretti in cui cantano tutti i membri della band tranne il batterista che pensava solo a pestare come un forsennato; del tanto paventato black metal non ne abbiamo sentito la benchè minima traccia.

Della band ci hanno colpito alcune particolarità: la chitarra color ghiaccio (come la terra da cui provengono - Norvegia) del chitarrista/cantante dotato di doppio tono vocale: roco come l'ugola dei Gorefest e declamatoria come Johnny Rotten Lydon; una delle due tastieriste che indossava una camicia da notte rossa e sgualcita, e sembrava non curarsene o non rendersene conto. Alla fine del concerto, guardandoci indietro, ancora non abbiamo capito se ci hanno intrigato, annoiato o confuso.

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