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PYOGENESIS: A Silent Soul Screams Loud

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28/02/2020
58


Genere: Alternative Metal
Etichetta: AFM Records
Distro:
Anno: 2020

Con 'A Silent Soul Screams Loud' i Pyogenesis completano la loro trilogia sul XIX secolo, iniziata nel 2015 con 'A Century In The Curse Of Time' e proseguita con 'A Kingdom To Disappear' del 2017. Il primo punto di interesse è per l’artwork della cover: affidata a Stan W. Decker, va a completare anch’essa una trilogia, la Trinità di Terra, Fuoco e Acqua. Atmosfere fantasy e tinte alla Tim Burton, tratteggiano l’esplorazione di un momento storico pieno, si, di ricchezze e meraviglie ma, anche, di un certo grado di orrore verso i “mostri“che si possono celare nell’abisso dell’animo umano. L’album è interamente autofinanziato e autoprodotto, il che, purtroppo, incide non troppo positivamente sull’economia del Lavoro nel suo insieme: le chitarre suonano molto artefatte, come spesso accade alle band alternative, e tutto il mix risulta un po’ sintetico. Solitamente si può ovviare a questo genere di problemi con un buon paio di cuffie ma, in questo caso, il sonno risulta ancora più impastato: non se ne esce. Per il singolo di lancio, “Modern Day Prometheus”, la band si è avvalsa della collaborazione di Chris Harms dei Lord of the Lost che, disgraziatamente, esce completamente distrutto dal missaggio. Una timbrica calda e profonda come quella del Lord - che ben si bilancerebbe con quella di Schwartz - è stata completamente sepolta sotto tonnellate di cori di sovraincisi. Peccato. Tutto il disco è permeato di atmosfere cupe, malinconiche, i testi toccano i punti salienti e più rilevanti della storia recente: Napoleone, Freud, Frankenstein, Darwin. Il brano di apertura “Survival Of The Fittest” (uno di quelli che risente meno di questo sciagurato assemblaggio) parte abbastanza a bomba, con un gran bel tiro: struttura lineare, smussata da stacchi e variazioni, sommata a un “non ritornello” piuttosto orecchiabile; nonostante la metrica dei testi sia abbastanza anarchica, bisogna ammettere che rimane in mente. La struttura si ripete un po’ in tutto il disco - “Mother Bohemia” e “Will I Ever Feel The Same” sono headbaning tracks quasi da manuale, nella loro epicità tutta tedesca, eppure i risultati migliori sono stati ottenuti in un brano che col metal ha ben poco a che vedere: il Prologue di “I Can't Breathe” richiama istantaneamente il pop degli anni 80. Un po’ come mettere il vocione di David Draiman su un brano dei primi Duran Duran, per capirsi. Il risultato è sorprendentemente interessante, come la sua confluenza nel Monologue, punto più alto dell'album dal punto di vista vocale. Il vocalist Flo ha una timbrica fatta per l’interpretazione di brani ad altissimo contenuto emotivo, dispiace solo che del suo range espressivo usi solo una minima parte, perché la sensazione è che potrebbe fare grandi cose. Di nuovo, peccato. Lo sforzo maggiore dal punto di vista strettamente del timing, lo troviamo in “The Capital”, con i suoi palesi riferimenti a Marx. 14 minuti e 19 secondi di brano, di cui almeno 8 sono totalmente superflui. Diverse persone ritengono che (salvo rarissimi casi tipo Waters, Ackerfeldt o altre perle rare) un brano così lungo non sia quasi mai una buona idea; vorrei poter dire che questa circostanza smentisce il luogo comune ma, ahimè, non è così. Arriva, in effetti, a suscitare addirittura un certo fastidio nell'ascoltatore. Avete presente quando vi ritrovate a pensare “Oh cielo, ma non finisce mai?”. Ecco, il mood è proprio quello. Peccato (e tre!). Sembra proprio che “peccato” sarebbe potuto essere il sottotitolo di questo album. Disco da bocciare, quindi? No, non del tutto: le idee sono buone, meriterebbero, però, un migliore sviluppo. E soprattutto, per l’amor del cielo, la prossima volta sarebbe auspicabile la collaborazione con un tecnico del suono che sappia valorizzare il buon potenziale a disposizione.

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