BLACK SABBATH: VOL 4
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25/01/2008Dopo un lavoro come 'Master Of Reality', in cui la band sostanzialmente si era ripetuta, confermando una serie di conquiste e maturazioni stilistiche, i Black Sabbath si ritrovano ad un bivio: propinare ancora una volta lo stesso stile (ormai vincente), ovvero percorrere una nuova via. Se è vero che il quarto volume dei Black Sabbath non eccelle per originalità del titolo, né per il concept dell'artwork, tutto composto da foto della band nei suoi shows, quasi a volerne cogliere l'alchimia, è vero anche che tra i solchi del disco c'è un coraggioso tentativo di mostrare qualcosa di nuovo e di innovare una formula, che la band non avrebbe avuto nessuna difficoltà a congelare e riproporre di disco in disco. La verità è che nel 1972 il mondo della musica era caratterizzato da nuove mode e tendenze, e allora i Black Sabbath si lasciano sedurre dalla voglia di una ballata pianoforte e mellotron, ed ecco "Changes". L'improvvisa esplosione del progressive rock cambia in un certo senso il gusto dei musicisti rock, e così la band si dimostra maggiormente interessata alla melodia, sia nel cantato di Ozzy, notevolmente più musicale, sia nelle parti di Iommi, ora più dinamiche e più umane, variegate e insaporite da colori e tecniche diverse come nel capolavoro "Wheels Of Confusion" (lunga, articolata e complessa), o come anche in "Laguna Sunrise", non proprio il primo esperimento acustico della band, ma di sicuro il più esotico e leggero, o come in "FX", un intermezzo breve e sperimentale (tutt'altra cosa rispetto ai classicismi dei momenti strumentali del disco precedente), che recepisce le istanze di certo rock sperimentale e kraut rock, nonchè delle nuove passioni per le ambientazioni spaziali. Ormai i pezzi non sono più delle sedimentazioni di catrame, ma soluzioni scoppiettanti piene di estro, come "Supernaut", impreziosita da solismi epilettici (da parte di uno Iommi eccellente, anche qua a metà tra l'acustico e l'assalto elettrico velocissimo), e da un Ward tagliente e vorticoso nella sua digressione tribale, anche se in media più moderato e schematico del solito, come nella lineare "Tomorrows Dream", ma pur sempre creativo e chiaroscurato come in "Snowblind" (che avrebbe dovuto dare il titolo al disco, salvo poi rivelarsi politicamente scorretta per via del chiaro riferimento alla cocaina), forse il pezzo più prevedibile del lotto, se non fosse per quel drumming jazzato che movimenta le lastre di radiottività delle aggressioni chitarristiche di Iommi (solenni nei riffs e violente e corpose nei solos). Altrove i pezzi non sono messi a fuoco, come la mediocre "Cornucopia" (ripetitiva e dolente sul bridge) o come "St.Vitus Dance" che se non altro preannuncia il rocknroll sporco e ottuso che verrà a distanza di tre album. Mentre nella entusiasmante "Under The Sun", un manifesto di scetticismo e di repulsione verso ogni fede che trascenda la dimensione umana, oltre a preannunciare praticamente il suono dei Kyuss e derivati.
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