ROMAOBSCURA III
Ormai giunto alla terza edizione (evento imprescindibile della stagione capitolina con cadenza annuale), il Romaobscura si presenta con un bill di tutto rispetto dopo aver ospitato nelle precedenti edizioni band del calibro di The Foreshadowing, Negura Bunget, Doomraiser, Primordial, October Tide e tante altre. Chiediamo venia alle band che non troveranno copertura in questo report, ma l'età avanzata e le devastate condizioni psico/fisiche non ci permettono di ascoltare più di tre band alla volta. Il caso vuole che arriviamo al Traffic proprio ad inizio concerto dei Callisto, band finlandese che dopo un inizio di carriera all’ombra dei Cult Of Luna (curiosa una certa somiglianza dei lavori dei finnici susseguenti alle uscite degli svedesi) ed ai padri del postcore i Neurosis, ha trovato una strada personale venata da altre influenze; sette elementi sul palco, molto statici, ma concentrati sull'esecuzione dei brani. Apre "Pale Pretender", opportunamente dilatata in termini di durata, ha catturato immediatamente l'attenzione del pubblico grazie agli hook e melodie orientaleggianti con strascichi di A Perfect Circle/Dredg nei cori e nei refrain di chitarra. Qualche problema tecnico durante il secondo brano (basso in distorsione che copriva gli altri strumenti), prontamente risolto dal fonico di sala per permetere alla band di colarci addosso la devastazione postcore tipica dei lavori precedenti, per la quale sono apprezzati. A seguire un paio di tracce alquanto lagnose che hanno assopito l'audience prima di tornare a saccheggiare l'ultimo lavoro, presentato quasi integralmente e dal quale sono stati presentati gli estratti migliori “Grey Light”, “Backbone” e “Dam’s Lair Road”; il frontman ha incarnato la quintessenza dell'essere nordici: grande prestazione vocale nelle due fasi (clean vocals - screaming) ma nessuna concessione al pubblico, con lo sguardo fisso nel vuoto a voler dissimulare un novello Ian Curtis senza le movenze schizoidi.
Cambio di palco ed è il turno dei nostrani Dark Lunacy, vestiti come marinai in alta uniforme (differivano solo per un piccolo particolare: la lunghezza dei capelli) fautori di un melodic death metal con cori barocchi e campionamenti ecumenico/ecclesiali, sparato attraverso un sound imponente (segno che il soundcheck era stato fatto in maniera impeccabile); fin da subito si è vista la differenza col frontman precedente, l'italiano dispensava elogi a destra e manca sia al pubblico che alle band intervenute. L'unico appunto che ci sentiamo di muovere alla band parmigiana è sui brani: pur essendo ben costruiti, arrangiati e ottimamente suonati, mancano di quel quid che li rende memorabili. Inoltre, crediamo che un quinto elemento sul palco, alle tastiere, non possa che dare ancora maggior potenza e pathos ai brani. Chiusura del set immancabilmente riservata a “Dolls” - cavallo di battaglia tratto dal disco d'esordio ‘Devoid’ - ed enfatizzata da un violino da brividi che ci ha fatto headbanging sfrenato.
Chiudono il festival gli headliner Moonsorrow, paladini di un folk metal potente e cadenzato, colonna sonora di centinaia di battaglie epiche e truccati come alberi di olivo cresciuti male ai bordi di un lago di sangue. Chi conosce la band finnica sa quanta pesantezza esca dalle loro chitarre, alla faccia delle sfuriate black dei vicini scandinavi; tutto ciò ha colto nel segno grazie a melodie cariche di groove e spaccati epici che ricordano la telluricità dei Bolt Thrower. L’aria all’interno del locale era satura come l’anticamera dell’inferno e “Kill The Christians”, il pezzo più black oltranzista del set (con un titolo del genere non poteva essere altrimenti), ha contribuito ad alzare ulteriormente la temperatura, spingendo il pubblico a pogare sfrenatamente sotto il palco. La durata media dei brani non è mai andata sotto i 10/12 minuti; con tale minutaggio se i pezzi non fossero stati ben costruiti sarebbe bastato un minuto per farci sprofondare nella noia, trappola puntualmente evitata dall’alternanza di parti epiche, black/death e tastiere folk a ricreare atmosfere e melodie care a ‘Tales Of A Thousand Lakes’ degli Amorphis. Batteria in primo piano, doppia cassa in supporto alla ritmica, cori a manetta tra pubblico e band, quando un interruzione di corrente ha fatto aumentare l’interazione e l’entusiasmo tra il vocalist e gli astanti, minacciando la prosecuzione del set in chiave acustica; eventualità scongiurata dalla risoluzione dell’inconveniente che ha portato un'altra mezzora di set trascinante e senza sbavature. Spettacolari.
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