OPETH
Salve a tutti lettori di Hardsounds. Ammetto che trovo una certa difficoltà nel raccontarvi ciò che è avvenuto in quel di Roma una certa domenica di metà dicembre, dato che il non indifferente impatto sonoro della serata ha sconvolto le mie endorfine, e penso che il discorso riguardi tutti coloro che quella sera hanno potuto dire “Io c’ero”. Partiamo dall’inizio. Davanti al rinomato Alpheus l’eccitazione era palpabile e l’attesa quanto mai mal sopportata. Infatti l’apertura del cancello che separava quello che è diventato un tempio della musica dall’umido rigore romano, ha liberato le energie represse e in breve tempo il locale si è riempito. Il vostro Crash, insieme al fido Domenico, convalidato l’accredito, si è ritrovato così all’interno dell’Alpheus, pronto ad una serata di grande musica. Il tempo di consentire a tutti l’entrata, e si sono aperte le danze. [AMPLIFIER] Ore 21: Gli Amplifier salgono sul palco. Il terzetto inglese, che ha appena pubblicato un nuovo album, ha approfittato dell’occasione per pubblicizzarlo. La proposta musicale del combo, per nulla banale o scontata, è una sorta di post-rock, con una certa velleità progressive che non può non far pensare ad un più che collaudato sound da altre celebri band (Tool?). Equalizzazione buona, ma non impeccabile (mi riferisco alla chitarra), tecnica indiscussa, una buona presenza scenica e la giusta attitudine è ciò che sicuramente non ha oscurato i tre davanti al gigante Opeth. Tre quarti d’ora di buona musica. [OPETH] Dopo una pausa di oltre 15 minuti per il cambio della strumentazione, e fare spazio al tastierista e all’immensa batteria del drummer degli Opeth, arriva il momento che tutti attendevano: la corazzata svedese sale sul palco. Luci soffuse, fumo e vari effetti luminosi sottolineano la grande atmosfera musicale che la band è capace di creare. La tecnica esecutoria dell’ensemble non è da mettere minimamente in discussione, e il solo discorrerne è superfluo. L’equalizzazione era quanto mai ottima, e anche un orecchio non allenato difficilmente avrebbe perso una nota. Singolare l’atteggiamento del frontman, che si è rivelato una persona certamente di spirito per le numerose facezie e trovate umoristiche (a volte però si trattava più che altro di umorismo britannico) che contrastavano con una certa freddezza onstage. Quasi tre ore di death-progressive, estremamente atmosferico, con momenti di violenza sonora genialmente accostati a melodicità ed anche ad una certa psichedelìa che non può non far pensare al progressive anni 70 di casa nostra, di cui Åkerfeldt si è sempre dichiarato fan. Questa è l’azzeccatissima setlist: - Ghost Of Perdition - When - Bleak - Face Of Melinda - The Night And The Silent Water - The Grand Conjuration - Windowpane - Blackwater Park Encore - Deliverance
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