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LILI REFRAIN

Chi bazzica nell'underground italiano più sperimentale, risulta difficile non essersi imbattuti davanti a quest'eclettica musicista della Capitale, innamorata della musica e di tutto ciò che unisce la natura e l'animo umano. Da ormai parecchi anni Lili Refrain scorazza su e giù per l'Italia, incantandoci con le sue personalissime melodie, le sue continue stratificazioni e i suoi percorsi sempre imprevedibili. In un certo senso è imprevedibile il suo ultimo lavoro artistico intitolato 'ULU', una sorta di esperienza sensoriale che è anche un esercizio spirituale e di riequilibrio interiore, e che si discosta notevolmente dai classici album in studio prodotti in precedenza. Un lavoro che non è stato promosso come avrebbe meritato, a causa della crisi pandemica che, come tanti altri artisti di indiscussa qualità, ha limitato anche la sua arte. Ma ora, dato che sembrano riaprirsi degli spiragli di riacquistata libertà, Lili è più carica che mai nel riprendere il percorso che lei ha tracciato. Il tutto riparte da questa densa chiacchierata in cui lei, come sua consuetudine, dà ampio spazio alle sue parole e alle sue emozioni, che lascia liberamente fluire come un fiume in piena corrente.

Ciao Lili. Vorrei iniziare questa chiacchierata dall’esperienza del tuo live al Labirinto della Masone dell’agosto 2020. Cosa ha suscitato in te esibirti in quel particolare contesto, allo stesso ripensando al tuo percorso artistico dagli inizi fino ad oggi? Ciao Raffaele! L’esperienza al Labirinto di Fontanellato è stata di un’intensità profondissima per me e quando ho ricevuto l’invito di andarci a suonare sono letteralmente saltata dalla sedia! Mi era già capitato di suonare a Fontanellato molti anni prima, in un bellissimo teatro antico, ed ero già capitata al Labirinto di Franco Maria Ricci ma solo come fruitrice di altri concerti, nonché come grande ammiratrice dell’immenso lavoro di ricerca di quell’essere umano pazzesco che purtroppo ci ha lasciati da poco. Dal punto di vista strettamente personale, trovarmi a suonare al centro di un labirinto e sotto l’ombra di una enorme piramide dopo tutto l’immaginario onirico che ha poi generato 'KAWAX' sette anni fa, ha avuto un impatto emotivo davvero molto forte su di me e per certi versi anche spiazzante. E' stato come trovarsi alle porte dei propri sogni. Ero nuovamente in un labirinto in un periodo decisamente stabilizzante di vita, ma questa volta, invece di un titano, ero io a guidare gli altri nel percorso. E' stato bellissimo perché ad un livello molto profondo è stato come se mi avessero dato la possibilità di restituire ed estendere ciò che ho ricevuto a mia volta.

Inoltre, quel concerto è stato svolto in un periodo particolare che sta ancora scuotendo la nostra società e il nostro modo di relazionarci. Rispetto a quella situazione, secondo te che significato ha avuto quel concerto? Da marzo 2020 sono stati mesi fortemente destabilizzanti per la maggior parte di tutti noi e tutt’oggi direi che non va affatto meglio, non tanto per le malattie che da sempre dilagano nell’umanità, quanto per le enormi contraddizioni e la grande deresponsabilizzazione scaturite dall’incommentabile gestione politica di tutto ciò. Non possiamo viaggiare liberamente, non possiamo partecipare ad eventi aggregativi ma possiamo ammassarci in supermercati o in piedi su un autobus con una ventina di posti liberi dove nessuno siede. Le scuole, le biblioteche, i cinema, i teatri, i locali, i musei sono tutti impossibilitati a svolgere la loro normale attività sebbene abbiano investito soldi ed energie nel tentativo di seguire tutte le direttive imposte per poi vedersi in seguito tagliare le gambe e nel peggiore dei casi chiudere definitivamente i battenti nella più totale indifferenza istituzionale. Ma le grandi industrie o alcune deplorevoli aziende non hanno neanche lontanamente ipotizzato di mettersi in pausa anche loro, come se qualcuno fosse esente dalle stesse forme di pericolo, malattia o morte che si suppone attanaglino chiunque. C’è chi ha addirittura chiesto il permesso di esistere in quanto “categoria” agli occhi di uno stato totalmente incapace di tutelare i diritti di chicchessia, penso a chi ha continuato incessantemente a lavorare in situazioni di emergenza e ai limiti del precariato sia sanitario che economico, a chi è rimasto improvvisamente a casa senza più certezze economiche mentre tasse, affitto o bollette non han mai smesso di porgere il conto, o chi alla luce di tutto viene anche punito con salatissime multe per le motivazioni più assurde a seconda della discrezionalità di chi malauguratamente incontra. Non che prima fossimo così tanto più liberi, ma ora è come se si fosse innalzato di tantissimo quello stendardo di disumanizzazione che caratterizza il nostro tempo. E quando è compromessa in modo così determinante una qualsiasi forma di libertà legata al piacere e al benessere reciproco, la frustrazione dilaga. Il senso di impotenza di ognuno di noi davanti ad eventi così difficili da comprendere e da gestire è stato amplificato a dismisura dall’impossibilità di una condivisione fisica che fosse anche un semplice abbraccio o una bevuta liberatoria tra amici…una banalissima rimpatriata in grado di superare il senso di trincea provocato da un coprifuoco guerresco, il bisogno atavico di non sentirsi soli in momenti così duri di esistenza ma restare uniti per non perdersi o deprimersi o annichilirsi. Quel concerto, così come tutti i concerti e tutti gli eventi di aggregazione sociale, hanno proprio la funzione di un grande abbraccio liberatorio, in cui non solo si superano paure o solitudini ma ci si stimola vicendevolmente, culturalmente, empaticamente. Non possiamo fare a meno di nutrire la nostra anima, di riflettere assieme e aiutarci ad osservare meglio anche il presente che viviamo per quanto possibile. Fa parte del buon funzionamento del nostro sistema vita. Pensare o sostenere pubblicamente che tutto ciò sia qualcosa di “superfluo” è per me qualcosa di totalmente inconcepibile. Poter assistere ad un evento di ampia portata come quello del Labirinto della Masone in quell’agosto, ma anche dei successivi concerti che si sono tenuti fino ad ottobre, con tutta la carica emotiva che ne è conseguita, il viaggio per arrivar fin lì che per alcuni sono stati moltissimi chilometri dopo la stasi totale in casa, ma soprattutto il potersi ritrovare così in tanti dopo tanta clausura è stata una vera boccata di ossigeno per l’anima. Una catarsi necessaria di cui avevamo tutti un immenso bisogno, un meraviglioso ritorno alla linfa vitale, seppur compostamente seduta, distanziata e mascherata...

Suppongo che i tuoi sostenitori abbiano aspettato con impazienza un tuo nuovo disco che fosse il successore di ‘Kawax’ del 2013. Sei uscita con ‘ULU’, che si differenzia dai tuoi lavori passati per essere, tra le varie cose, una serie di tre momenti sonori che si uniscono in un unico percorso. Come hai deciso di pubblicare un lavoro di questo tipo? 'ULU' inizialmente era nato su supporto cartaceo come poster audio in collaborazione con Francesco Viscuso, autore del meraviglioso artwork elaborato da una sua fotografia. Mi piaceva l’idea che fosse reperibile unicamente ai miei concerti e che avesse un supporto fragile e materico proprio come un live o come una lettera che si scrive ad una persona cara, perché di fatto 'ULU' è un live ed è destinato a persone che condividono quel particolare ambiente e che quindi hanno una buona idea di cosa si stia parlando, anche quando di fatto parole non ce ne sono. I brani che lo compongono sono tutti nati su un palco, non in casa o in uno studio come i tre precedenti album. Dopo 'KAWAX' la mia attività live si è intensificata moltissimo e rispetto agli anni passati ho potuto esperire maggiormente il mio stato di nomade, che attualmente mi manca da morire. Nel luogo dove abitavo ci tornavo molto poco e per pochissimo, la maggior parte del tempo ero fuori a suonare e se non suonavo ero in altre case, ospite altrove da amici o da gentilissime anime incontrate di passaggio. Un effettivo luogo stanziale in cui potermi fermare a radunare le idee in solitudine e mettermi a scrivere non l’ho avuto per un bel po’ e credo sia questo il motivo di tanta attesa. Resta che tra i vari soundcheck, i tanti live e le suonate estemporanee con altri musicisti, sono nati dei brani che di fatto esistono da molto tempo e che non sono mai stati incisi su nulla, come i tre che poi hanno formato 'ULU' e che ho sentito il bisogno di “fermare”, non tanto come tre brani, ma proprio come un unico corpus, qualcosa che stava per lasciare delle spoglie e assumere un’altra forma, una sorta di passaggio tra le sonorità di 'KAWAX' e ciò che si sta delineando all’oggi. Di certo non mi aspettavo che 'ULU' potesse diventare un vinile, è stata una scelta ponderata con Davide della Subsound Records che si è letteralmente innamorato del disco e ha voluto dargli la forma molto meno fragile del Picture Disc che è uscito proprio a marzo 2020, a fronte di un intero tour annullato e pochissime date di presentazione purtroppo.

Che significato può avere ‘ULU’ nel tuo mondo ideale, e quali aspetti lo differenzia rispetto ai tuoi album passati? 'ULU' è un ponte, è un respiro molto ampio dove i passi della strada battuta si rivolgono incuriositi verso ignoti sterrati. E' un ricordo, un presente, è ciò che delle volte dimentichiamo di avere. Rispetto agli album passati è la prima volta che non passo notti insonni a scrivere metodicamente dei brani fino alla presunzione che siano perfetti (solo per me ovviamente!). E’ un live nato in modo semplice e spontaneo, registrato al 16th Cellar Studio di Roma che è un luogo diverso da quello in cui ho registrato i precedenti album, ha altre attitudini e sguardi. Inoltre è il primo disco dove per la prima volta le mie chitarre non sono le protagoniste indiscusse e introduco altri strumenti.

Negli anni successivi a ‘Kawax’, ti abbiamo vista esibirti utilizzando strumenti che in passato non avevi affrontato, come timpano, kalimba, synth, ecc., esplorando quindi nuove sonorità che si differenziassero dai tuoi strati chitarristici a cui ci hai abituato. Forse è per questo che abbiamo dovuto aspettare così tanto prima che ci proponessi un nuovo album: la tua continua voglia di scoprire dove sarebbe potuta arrivare la tua componente artistica. Come è stato lavorare con nuovi strumenti e se in futuro continuerai in questa direzione? Esplorare strumenti diversi da quelli per me più immediati continua ad essere estremamente stimolante. La chitarra è stata il primo strumento al quale mi sono approcciata e ho sempre avuto una grande facilità a suonarla, sebbene da mera autodidatta. Ho sempre trovato un rifugio incredibilmente confortante in quelle corde, sono state delle grandiose confidenti e grazie a loro sono riuscita a tirar fuori ogni sfumatura umorale del mio animo, ci ho dialogato davvero tantissimo e sento di aver in gran parte espresso tutto ciò che ho potuto. Proprio alla luce di ciò ho sentito una gran necessità di uscire fuori dalla mia zona di comfort mettendomi in gioco con altre possibilità espressive. Con chitarra e voce ho spremuto al massimo tutta la gamma di frequenze medio-alte possibili e immaginabili, nonché le possibilità compositive date dalla stratificazione di questi due elementi (e non smetterò mai di ringraziare i fonici con cui ho lavorato in tutti questi anni per la loro pazienza infinita!). Ho sentito l’esigenza di scendere verso frequenze più profonde e arricchire maggiormente anche la gamma dei bassi che mi è sempre mancata. Il synth da questo punto di vista è uno strumento che nella sua immediatezza mi ha introdotta proprio verso questo nuovo percorso permettendomi di sostituire i vari bordoni vocali con dei veri e propri droni sui quali emergere melodicamente in modo molto più completo e ricco. Ho poi sostituito i miei tanto amati tapping e le varie percosse a prova di livido sui pickup della chitarra con una vera e propria ritmica percussiva. E per la prima volta in vita mia, è da un annetto che sto studiando seriamente uno strumento: il Taiko. Si tratta di un tipo di percussione orientale che unisce meravigliosamente due delle mie passioni più grandi, la musica e le arti marziali. Ho inoltre l’immensa fortuna di impararlo sotto la guida di Rita Superbi, che oltre ad essere una persona strabiliante è anche una delle migliori insegnanti che mi potessero capitare! Diciamo che sto cercando di uscire da quell’”horror vacui” che ha contraddistinto la mia passata produzione cercando di ampliare la strumentazione invece che gli strati di riff.

Ciò che rimane invece il tuo marchio di fabbrica inciso sulla pietra è questo continuo vortice di suoni in loop station. Questo particolare effetto è stato un’idea a cui hai pensato sin dall’inizio della tua carriera, o anch’esso è stato il frutto di lunghe tue sperimentazioni? Il progetto Refrain, come suggerisce anche il nome, nasce proprio attorno alla composizione per strati. E’ il paradosso del ritornello che nel suo eterno ritorno finisce per creare una sorta di mandala, e grazie alla sua ripetizione continua permette di sentire e vedere qualcosa di ulteriore. E’ una tecnica che trovo incredibilmente terapeutica e con la quale mi viene facile comunicare in modo molto profondo, sia con me stessa che con gli altri. Se penso al passato credo di aver sempre avuto un’indole innata verso questa pratica, anche per cose non necessariamente riguardanti la musica. Il primo approccio sonoro arriva sicuramente da un vecchio stereo a cassetta dove fin dai tempi della scuola ero solita registrare voci o parti di flauto dolce (che era lo strumento che ci facevano imparare in quella meravigliosa materia chiamata educazione musicale) per poi rimandarlo in play dall’inizio e suonarci sopra la seconda linea nella trepida curiosità di ascoltare il brano nella sua interezza; facevo la stessa cosa anche quando ho iniziato a suonare la chitarra con il mio primo gruppo per allenarmi negli assoli, registravo un arpeggio o una qualsiasi ritmica e rimandavo in play per risuonarci su. In seguito ho ampliato questa pratica con un Tascam, un multi-traccia sempre a cassetta dove potevo registrare molte più voci sovrapposte e dove ha iniziato a prendere forma questo gioco di specchi riflessi che è diventato in seguito il progetto Refrain, ampliato grazie alle prime loop station uscite in commercio. Non ho ancora mai usato campionatori di altro tipo o computer fino ad ora, mi sono sempre sembrati strumenti con i quali si potesse “barare” in qualche modo o quanto meno fraintendere quale fosse il lavoro della macchina e quale quello dell’uomo. Non mi dispiacerebbe esplorare anche il campo più elettronico in futuro, per ora continuo a prediligere un approccio più genuino rispetto alla performance in real time che porto in scena insieme al mio concerto, con tutti i rischi e i limiti che comporta la sola abilità umana.

Pensi che ci possa essere una similitudine tra questo effetto sonoro e il mondo contemporaneo, in continua e perenne evoluzione? Se per effetto sonoro intendi la ripetizione, credo che la circolarità appartenga un po’ a tutto. La vita e la morte sono ripetizioni costanti che vanno avanti dall’alba dei tempi, anche il tempo è una ripetizione, tutto ciò che ci circonda ha la sua ciclicità più o meno regolare e anche noi tendiamo abbastanza spesso a ripeterci. Non saprei dire se questo sia evoluzione o qualcosa di strettamente contemporaneo. L’effetto sonoro che avvicinerei di più alla contemporaneità è la saturazione, il noise con poca gentilezza, quello ruvido, scomodo e dall’equalizzazione ingestibile. E' un suono che alle volte apprezzo molto, soprattutto l’effetto che lascia quando finisce all’improvviso.

Il videoclip che hai rilasciato per la parte dell’album intitolata “Mul” rappresenta la tua figura  solitaria, immersa in un paesaggio apparentemente desolante, cercando di relazionarti con gli elementi che quella natura offre. D’altro canto, le tue esibizioni dal vivo sono influenzate dal tuo contatto e dialogo con le persone fisiche, cercando di creare delle simbiosi allo stesso modo di quanto provi a fare con la natura che ti circonda. Trovi quindi delle similitudini tra contatto con la Natura e contatto con la Persona Umana in fatto di ispirazione artistica? Natura e persona umana fanno parte della stessa cosa a mio vedere e con entrambi tendiamo tutti a stabilire rituali di vario genere, dal nutrimento di corpo e anima alle varie forme di dialogo. Personalmente provo grande empatia per entrambe ed essendone parte ne sono fortemente influenzata. Direi che tutto fa parte di questo enorme calderone che tradotto da ignoti archetipi può diventare ispirazione. Non è sempre semplice trovare il modo efficace per poterla restituire adeguatamente, trovo che questo sia un passaggio davvero molto delicato e nel mio minuscolo cerco di metterci dentro quanta più cura e responsabilità possibile. Non credo si debba esprimere necessariamente qualcosa se non si ha nulla da dire, a volte è più efficace tacere del tutto e restare in ascolto.

Nel corso degli anni hai incontrato tante persone in svariate località. Qual è il luogo, o il palco, che ti ha colpito di più e che ti è rimasto maggiormente nel cuore? Questa è una domanda davvero difficile perché ogni luogo che ho incontrato si è rivelato una scoperta immensa per me. Poter viaggiare grazie alla musica è stata e continuerà ad essere una delle esperienze umane più ricche e intense che abbia mai sognato di vivere. Sono grata a tutte le scelte che mi hanno portata a mollare ogni altra cosa e vivere unicamente di questo perché non sarei la persona che sono altrimenti, e sono davvero molto felice di essere chi sono. Negli ultimi 15 anni ho viaggiato soprattutto in treno e con carichi assurdi, mi è capitato di conoscere persone pazzesche e meravigliarmi davanti a paesaggi incredibili anche durante il tragitto per arrivare in un determinato posto, quindi delle volte non saprei nemmeno dirti dov’ero effettivamente. I primi tour in treno per l’Europa sono sicuramente quelli che mi porto più nel cuore, sia come primissima esperienza fuori dall’Italia e sia come formazione strettamente ninja. Per la maggior parte delle volte ho sempre viaggiato da sola, anche in luoghi dove arrivi e non capisci un tubo di cosa stiano dicendo attorno a te. E non è stato sempre facile. Mi sono capitate anche situazioni molto poco piacevoli (pochissime, per mia fortuna!) e proprio la possibilità di affrontarle in solitudine mi ha messo talmente tanto alla prova da rendermi praticamente di ghisa! Ho suonato su palchi enormi con impianti potentissimi e in spazi minuscoli con casse dello stereo mezze rotte al posto dell’impianto e un manico di scopa iper gaffato al posto dell’asta del microfono. Ho suonato in chiese, in squat, in case, in stadi, in localini, in stalle, in musei pazzeschi e scantinati puzzosissimi. Per me il palco è una mera cornice. E’ ciò che accade lì in mezzo che fa la differenza. Mi è capitato di incontrare gente di tutti i tipi, persone a cui non fregava assolutamente nulla del concerto, persone a cui invece il mio live ha scosso profondamente delle corde interiori e dopo pianti e racconti inimmaginabili da perfetti estranei si è istaurata una super amicizia, gruppi con cui ho condiviso palchi, organizzatori, fonici. E’ la mia vita, ogni cosa che ho vissuto grazie ai concerti dal vivo ha forgiato ed è parte del mio cuore.

Mi avevi raccontato che ‘ULU’ sarebbe stato un lavoro ponte che ti avrebbe portato ad un nuovo e più classico album. Essendo tu una persona in continua evoluzione artistica, sei ancora su quell’idea? Assolutamente. Sono molto lenta e incostante ultimamente, ma persevero proprio in quella direzione e c’è già del nuovo materiale inciso su pietra sul quale continuerò a lavorare non appena mi sarà possibile.

Attualmente stai facendo la spola tra Roma, tua città natale, e Genova, che penso potremmo definire la tua città adottiva. Due città dalle origini profondamente diverse, unite secondo me dalla passionalità di chi ci vive. Che stimoli ti danno due mondi di questo tipo? Genova è una città dove avevo dei conti in sospeso fin dal G8 e in cui ho potuto trovare una sorta di cura omeopatica per l’animo in questo ultimo anno. Mi ci sono trasferita in piena pandemia, ed è stato bellissimo poterla esplorare lentamente, nella sua stramba verticalità, nei suoi sorprendenti boschi tipici dell’Appennino, nelle sue rocce e onde. E’ un luogo che mi sta insegnando molto e che nella sua pirateria intrinseca mi ha permesso di fare molte cose, nonostante l’illegalità del periodo. Roma è la città dove sono nata e cresciuta e che, mi duole moltissimo, non ha più nulla da dire o da dare, a me per lo meno. La percepisco come una città stanca, decadente, che vive solo del suo glorioso passato che si sbriciola ogni giorno sotto lo sguardo passivo di chi ci abita. E’ una città che con tutte le sue contraddizioni mi ha insegnato davvero tantissimo, soprattutto l’accoglienza, l’inclusività, la meravigliosa forza della varietà e delle differenze che coabitano in armonia. Vederla progressivamente assediata da militari armati ad ogni angolo e percepire la pesantezza d’animo di chi ci abita è qualcosa che mi ha sovvertito l’umore da molti anni a questa parte, tanto che progressivamente ho sentito l’esigenza di andarmene ed esplorare posti diversi, dal sud al nord Italia, dove ho sicuramente arricchito ulteriormente le mie esperienze di vita.

In passato hai avuto modo di confrontarti anche all’estero. Fuori dai nostri confini, come è stata accolta la tua musica? Davvero molto bene direi ed è stato molto interessante anche confrontarsi con un pubblico differente. Non voglio fare l’esterofila, ma ho notato che fuori dai confini italiani la maggior parte della gente va ai concerti proprio in funzione del loro ascolto e non per altro. Ho ricevuto un tipo di attenzione diversa, più concentrata e immersiva, e non suonando un genere in particolare mi è sembrato di ricevere una curiosità ulteriore, più eterogenea.

Una volta che questo nuovo periodo difficile finirà, qual è la prima cosa che ti verrà in mente di fare? Chiaramente mi auguro di poter riprendere da dove ho lasciato e ricominciare a suonare in giro come se non ci fosse un domani. C’è da dire che la maggior parte dei locali e dei luoghi che in passato hanno ospitato concerti si sono visti tagliare le gambe in questo periodo, alcuni hanno resistito con grandissime difficoltà ed altri hanno irrimediabilmente chiuso i battenti. Questa perdita riguarda tutti noi, non solo chi fa musica. Sarà quindi molto importante unirsi e operare collettivamente per andarci a riprendere quanti più spazi possibili e nell’ovunque. Nel mentre sto continuando ad agire proprio in questo senso, sto creando collaborazioni con altri musicisti, sto lavorando a nuovo materiale e, per quanto si possa o meno essere d’accordo, oltre a portare in giro i miei live a domicilio, ho iniziato proprio in questo periodo così strano ed incerto ad organizzare assieme a persone sensazionali dei bellissimi concerti in luoghi misteriosi.

Per concludere, cerca un modo per convincere gli ascoltatori che ancora non ti conoscono ad approfondire la tua arte ed a promuovere il tuo lavoro. Su questo punto sono davvero pessima e ho un rapporto abbastanza conflittuale con l’autopromozione. Inviterei i curiosi a partecipare appena possono ad un mio concerto dal vivo, che è di sicuro la via privilegiata per fruire al meglio ciò che faccio a livello sonoro e anche per conoscersi e fare un po’ di chiacchiere, conscia che su altri supporti non rende affatto. In quella grossa scatola che è il web non troverete dei miei concerti in streamin,g ma ci sono comunque vari link per avere una piccola idea di ciò che faccio: basterà cercare LILI REFRAIN su Bandcamp o su YouTube o andare sul mio blog che è lilirefrain.blogspot.com

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