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INTERPOL: Marauder

data

29/08/2018
78


Genere: Indie Rock, Post-Punk Revival
Etichetta: Matador
Distro:
Anno: 2018

Esordire con una pietra miliare del livello di ‘Turn On The Bright Lights’ dev’essere un fardello non indifferente.  Ne sanno qualcosa gli Interpol, visto che da allora (sono passati ormai sedici anni) ogni nuova uscita del trio statunitense ha subìto il peso dei paragoni con un passato così brillante ed ingombrante. E tra alti (‘Antics’, ‘Our Love To Admire’, ‘El Pintor’) e bassi (il semi-disastroso eponimo del 2010), siamo arrivati alla sesta prova in studio, ‘Marauder’. La grande novità è il ritorno all’utilizzo di un produttore esterno (l’ultima volta fu undici anni fa con l’esordio su major ‘Our Love To Admire’, sul quale lavorò il sodale dei Muse Rich Costey), e la scelta è caduta su Dave Fridmann, forgiatore del suono di pesi massimi come Mercury Rev e The Flaming Lips. La scelta di Fridmann è anacronistica, ma fondamentalmente vincente: registrare tutto l’album in analogico, mettendo in evidenza la batteria di Fogarino (mai così in forma, pare sia arrivato addirittura a semi-distruggere il suo set in fase di registrazione), e soprattutto (come sbagliare) la calda voce di Paul Banks. Ne viene fuori un disco bellissimo, grezzo ed immediato, lontano dalle stratificazioni di certe cose degli ultimi tre album; la freschezza del sound del trio trova nuova linfa, e l’impianto sonoro torna a poggiarsi alle ritmiche forsennate di un Fogarino spaventosamente sul pezzo (i singoli “The Rover” ed “If You Really Love Nothing”, quest’ultima piazzata ad aprire le danze con un incedere curiosamente in zona Kings Of Leon). E mentre Sam picchia e ricama, il buon Banks non può far altro che abbeverarsi alla fonte di questa rinnovata freschezza e mettere il proprio timbro vocale su episodi così diretti e ficcanti da far sobbalzare sulla sedia (“Complications”, “Surveillance”); c’è anche spazio per i ricami chitarristici di Daniel Kessler, in particolar modo in un episodio come “Mountain Child”, e per un pizzico di sperimentazione (la sfuggente “Stay In Touch”, con un Banks più predicatore che cantante). Completano il quadro di questo signor disco un paio di episodi che fungono da ritorno alle origini, mossa forse un po’ cerchiobottista, ma alla fine efficace, funzionale in un disco che vuol essere finalmente la tanto agognata ripartenza che gli Interpol aspettano da almeno un decennio.

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