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GORY BLISTER

Come pensate sia cambiato il significato di metal estremo in Italia, e grazie (o a causa) di cosa? Tra le vostre interviste si leggeva sempre un “Death metal is a form of art”. La pensate ancora così ? Joe: quella frase traeva genesi dalla considerazione di cui godeva il metal negli anni 80, ovvero: rumore, accozzaglia di suoni, nella migliore delle ipotesi. Il nostro intento era dare dignità ad un genere musicale dalle potenzialità infinite. Probabilmente, le prime espressioni artistiche dei modernisti d’inizio secolo scorso, furono trattate alla stessa stregua e quindi l’unico modo per cercare di aprire le orecchie ai più ostinati detrattori del metal, era la metafora artistica, perché la portata rivoluzionaria del death metal era paragonabile a quella di Antonin Artaud nella letteratura di un secolo fa, per esempio. Oggi molto è cambiato, ma quella frase resta attuale, anche se andrebbe reinterpretata sotto una diversa luce. Per molti anni, il metal ha goduto di uno status particolare all’interno del music business. In pratica era una sorta di universo parallelo, del tutto snobbato dalle grandi majors, ma con fans disposti a tutto. L’Italia purtroppo è stata sempre, a torto o a ragione, considerata un paese di serie B nel metal, e ci sarebbe da chiedersi se abbiamo veramente fatto qualcosa per non avvalorare tale definizione. Insomma, mentre il music business metteva le mani sul metal mondiale attraverso progetti come Machine Head, in Italia c’era ancora qualcuno che credeva alle bestie di Satana. Nel senso che l’equazione metal = satanismo sembrava l’unico modo per far passare questo genere di musica attraverso i grandi mass media. Serie C, altro che B! Poi è arrivato il file-sharing che, checché se ne dica, ha permesso a molte bands di by-passare lo strapotere delle majors per farsi direttamente giudicare dal pubblico. La globalizzazione della musica stavolta ha toccato anche il metal. Ecco, proprio in questo contesto, credo che il metal estremo sia una sorta di via d’uscita, nel senso che può rappresentare il residuo spazio per l’espressione artistica, per l’antagonismo rispetto alle forme musicali convenzionali, insomma per quella contrapposizione che genera il nuovo, data per defunta dalla filosofia post-modernista. Il death metal come spazio di resistenza dell’individualità artistica. Un atto, estremo, non solo un genere di musica. Ecco perché quella frase ha ancora valore; ci sono bands in Italia che suonano oggi metal estremo con la stessa passione che muoveva noi nel 1991. Il contesto è diverso, ma la resistenza artistica è ancora incandescente. Come mai una band musicalmente sincera come la vostra, decide ogni tanto di concedersi esperimenti? Raff: Sincera è la parola corretta. La musica è per noi una libera e naturale espressione artistica, suoniamo e scriviamo ciò che ci viene naturale, e meglio ci inspira in un preciso momento. Può quindi capitare di avere la necessità di non porsi dei confini creativi, che devono però essere sempre contestualizzati al nostro genere e sound che non deve mai essere snaturato, altrimenti si rischia di perdere il pathos e diventare grotteschi e quindi non sinceri. Joe: Concordo appieno; non potrai mai provare che le nostre sperimentazioni spostino più di tanto il bilancino del death metal nella nostra musica. Noi crediamo in questo tipo di musica, ne abbiamo sposato le condizioni e le coordinate artistiche ed è in esse che ci muoviamo. A volte possiamo anche sbagliare, ma le nostre sperimentazioni restano agganciate al contesto di “pure death metal” che ci contraddistingue. Noi non contaminiamo la nostra musica, ma cerchiamo di evolverla partendo da essa. Non ci interessa “importare” del rock’n’roll o della musica elettronica nel nostro stile. Ciò non toglie che in un particolare momento e senza scombinare le carte, certe digressioni creino armonia con la nostra attitudine estrema. Come vedete il death metal da qui a dieci anni? Raff: Credo che spesso si parli di tentativi di sperimentazione laddove non si ha piena coscienza di quello che sarà il risultato finale. L’impressione è che si provi a pescare il jolly, che possa aver valenza solo per fini commerciali. Tutto e’ possibile e credo che il death metal non sia immune da queste logiche, quindi potrebbe accadere, specie se mancano idee vere, che il black o il death metal un giorno siano fatti con l’uso di drum-machine e synth. Personalmente interpreto il concetto di “estremo” nel Death Metal da un altro punto di vista. Estremo non per i suoni o per la velocità di esecuzione dei brani, ma estremo nel modo di concepire una song senza il timore di osare tutte le volte, ma andare per la propria strada senza voltarsi mai indietro se non per comprendere gli errori commessi e migliorare per il futuro. Joe: Ho sempre creduto che il death metal, per come possono essere strutturate le songs, contenga dentro di sé i parametri per potersi evolvere all'infinito senza bisogno di chiedere idee in prestito ad altri generi. Tutto sta a non rinunciare alla propria personale ispirazione artistica, in favore di fattori extra artistici come la birra o i soldi. Sono passati forse 30 anni dalla nascita di questo genere e 15 da quando già lo si dava per morto! Sono nate bands che hanno non copiato, ma surclassato nel modo di suonare o di scrivere, i mostri sacri, questa è una polizza sulla vita! Oggi siete ovviamente più consapevoli dei vostri mezzi e la sostanza “non cambia”, non credete? Raff: Certamente, abbiamo perseverato nella nostra strada ed inevitabilmente siamo cresciuti e maturati come musicisti, la sostanza non è mai cambiata, è cambiata solo la consapevolezza con la quale scriviamo le nostre canzoni, ascoltiamo e facciamo musica. Credo che questo si evinca in modo marcato se si ascolta il nostro materiale partendo dagli albori sino ad oggi. Sarà cosi anche per il futuro e finché avremo qualcosa da dire, la comunicheremo attraverso il nostro Death Metal. Descriveteci “Spoilt By Greed” come fate di solito per un vostro nuovo lavoro in studio. Joe: Venivamo dallo shock creato da “Altars Of Madness” dei Morbid Angel. A quel tempo nessuno aveva osato tanto. Grazie ad un chitarrista molto eccentrico e talentuoso, avevamo buttato giù delle idee in pochi mesi. L’idea base era unire la violenza di Altars Of Madness, ai tecnicismi di “No More Color” dei Coroner. Ovviamente una spruzzatina di Kreator e Pestilence ci stava bene! Quindi, quando pensammo di aver imparato a suonare i pezzi (6) entrammo in studio, nel primo studio del mitico Nanni Surace a Brindisi. Volevamo suonare i pezzi in un'unica take, ma non ne eravamo capaci, perciò Nanni riuscì a farci fare l’insert con il registratore a nastro! Ti dico solo che chiudemmo il missaggio contemporaneamente ad una boccia di non meglio identificato whiskey di seconda qualità! Si sente no!? Ad ogni modo riuscimmo nell'intento di mettere su cassetta dei pezzi sorprendenti. Cambi di tempo a go-go, riffs interessanti, violenza ed originalità, per quei tempi. L’opener “Sink Into Oblivion” ha fatto parte della nostra scaletta fino a qualche anno fa mentre “A Gout From The Scar” si è meritata un rifacimento nel debut album “Art Bleeds”. Era una delle preferite dal nostro pubblico. Insomma, quel demo attirò parecchie attenzioni, forse più del successivo (“Hanging Down The Sounds”), che invece avevamo curato meglio. Brano preferito ? Influenze maggiori? Joe: La mia preferita del demo era “From The Universe Beyond”. “Reduced To A Gore” voleva essere un po’ caricaturale, anche nei testi, di un certo stereotipo di death metal vigente all'epoca, ma fummo presi sul serio e devo dire che ci avevamo anche preso gusto. Fece parte della nostra live set-list per molto tempo. Sia i Pestilence, che i Coroner si sciolsero di lì a poco e con l’avvento di Cannibal Corpse e Carcass le nostre influenze si sono evolute, anche se i primi due restano punti di riferimento immortali. In tutto questo non possiamo dimenticare il dominio anni 90 dei Death del mai troppo compianto Chuck Schuldiner. L’influenza di Individual Thought Patterns e Symbolic divenne presto fondamentale per noi. Che rapporto avete con la pittura e l’arte visiva in generale ? Joe: Ho sempre considerato, in linea con Michael dei Voivod, l’album di una band è come un’opera d’arte che va dal primo brano ai credits del retro CD, ovviamente lyrics comprese. Considera che i Voivod hanno creato oltre ad un font specifico, tutto un immaginario di personaggi e storie cyber e sci-fi. Il primo logo Gory Blister fu disegnato da me a matita su un foglio di carta. Fu perfezionato una prima volta, prima di essere stampato sul secondo demo, da Nick Curri, personaggio cult della scena metal del sud Italia dell’epoca e nostro amico. Ho sempre curato in prima persona l’ideazione e nei limiti del possibile, la realizzazione degli artwork dei nostri lavori. Oltre a curare i testi da sempre. La copertina del disco deve rappresentare tematicamente il concept o gli argomenti trattati nell'album. Per gli album ci siamo affidati ad un artista francese chiamato B-Lial. Quelle dominanti di colore rossastro sono evidentemente nelle sue corde, ma per GOA avevo un’altra idea. Intanto usare i colori del mio ultimo viaggio e poi rendere cromaticamente la copertina più visibile in una vetrina metal, dove fatalmente il rosso ed il nero saranno i colori più abusati. L’ultimo album Earth-Sick invece, ha una cover acquistata da un’artista statunitense. Ci siamo imbattuti quasi per caso nel suo sito internet e quando l’ho vista ho pensato che era esattamente l’immagine che avevo in mente, né più, né meno! Per quanto riguarda il nostro rapporto con la pittura, beh, credo sia di rispetto e attenzione. Non siamo dei grandi esperti, ma personalmente sono affascinato dai "caravaggisti" e dalla brutalità di un Cimabue. Sotto certi aspetti preferisco la fotografia, ma in tutti i casi, m’interessa la ricerca sul linguaggio dei colori. Siete ancora in contatto con Luigi Spirito e Luca Nappo? Joe: Quel genietto di Luca non ha mai smesso di suonare la chitarra in svariati progetti. La mia personalissima opinione è che lui avrebbe avuto tutti i numeri per diventare un chitarrista di valore mondiale, se solo avesse continuato a crederci, con tutte le rinunce del caso, naturalmente. Ha la sua vita ora e penso sia felice. Luigi ha invece appeso il basso al chiodo, per quanto ne so. Ogni tanto quando sono a Taranto lo vedo e ci facciamo quattro risate. Potresti fare un riassunto dei vari bassisti che avete avuto? Raff: É un’impresa! Sono davvero tanti! Ogni elemento che ha fatto parte dei GORY BLISTER e’ stato importante per la band indipendentemente se vi abbia fatto parte per 6 mesi o 2 anni. Credo valga la pena menzionare coloro che ufficialmente compaiono in quelle che sono state sino ad oggi le pubblicazioni e le promo ufficiali: Daniel (vocals + guitar, ex Node) e Mike Brustia (bassista dei mitici THY NATURE) fondamentali per la buona riuscita di Art Bleeds, Sym Bertozzi (per noi bassista, ma chitarrista nei The Modern Age of Slavery) e Adriano Bellante (vocals), fondamentali per la promozione di Skymorphosis culminata con un importante Tour Europeo con Sadus e Darkane. Roby Gelli (bassista AllHelluja) militanza di tre anni ed ottimo collante per il sound di GRAVEYARD OF ANGELS, poi ancora Christian (basso) dei brutali JOADS, Max Graglia (Laeta Mors) singer che con la sua personalità ha dato nuova linfa al sound della band, dopo l’abbandono di Dome ed infine la line up attuale: John St John alla voce, finalmente un cantante con gli attributi giusti!!! Cosa mi dite a proposito delle ristampe e come giudicate oggi il lavoro della Sekhmet Records? Raff: Che c'è un vecchio progetto di ristampare ART BLEEDS che e’ stato sold-out nel 2003, questa volta con la cover "Never Let Me Down" dei Depeche Mode non pubblicata nella prima stampa dalla Sekhmet Records perché non voleva pagare i diritti d’autore ai Depeche… era una versione in stile Carcass che anticipava clamorosamente la moda di coverizzare quella band… una volta tanto saremmo arrivati primi! Solo che di questi tempi che i dischi non li vende più nessuno, e’ dura fare una re-release di un album vecchio, che per quanto suoni tutt'oggi’oggi attuale non venderebbe a tal punto da giustificare l’impresa. Aggiungi che non siamo i Metallica ed in gioco è presto fatto. Ad ogni modo mai dire mai…vedremo! La Sekhmet poco poteva fare e poco ha fatto; però bisogna dire che salvò Art Bleeds da una tragica fine e tenne il nome dei Gory vivo per un paio d’anni, che bastarono ad’incontrare l’interesse della Mascot Records. Come avvenne il deal con la Nosferatu per l’ep “Cognitive Sinergy”? Raff: Ricordo che non fu un bel rapporto, con la Nosferatu Rec. Piacevamo all'allora A&R Alberto Penzin ma non al capo della Label, un certo Cannavò che pubblicò a malincuore la nostra release. Ci dovemmo occupare da soli della promozione con la stampa, fu un esordio anche da questo punto di vista. Tutto fa esperienza e “Cognitive Sinergy” fu accolto bene dalla critica, preparando il terreno per ART BLEEDS. Non ricordo quanto vendette, credo non molto, ma all'epoca non era importante, ciò che contava era comunicare che esistevi, quindi interviste, recensioni e soprattutto i concerti erano fondamentali. Le canzoni di quellìEP oggi sono quelle che ci rappresentano meno nel sound, escluso la title track Cognitive Sinergy che rappresentava un punto di svolta creativo per me e Joe, al punto tale da riproporla riarrangiata in Art Bleeds, diventando il nostro cavallo di battaglia dal 2000 al 2004. Joe: La funzione principale di quel mini CD era appunto, una riaffermazione di identità e di vita. Coincise con la decisione presa a malincuore da me e Raff di lasciare Taranto per provare a continuare in quel di Milano. Era determinante avere visibilità per sperare di potercela fare. Inoltre, la song “Cognitive Sinergy” doveva essere un banco di prova per me e Raff, che per la prima volta scrivevamo un pezzo da soli. Il risultato quindi è da interpretare sotto l’ottica di questi avvenimenti. Due anni dopo esce il vostro primo full autoprodotto. L’arte sanguina tutt'oggi? Se si perché, a causa di cosa? Raff: Già! Autoprodotto e firmato col sangue. Inizialmente doveva far parte del progetto Sonick Attack della Noise Records, andato a puttane poco dopo la firma del contratto, e finalmente licenziato dalla Sekhmet Records, che nel suo piccolo ha lavorato bene per promuovere la band. Joe: Vedi, nel 2000 pensavamo di aver preso in corsa l’ultimo treno per fare quel salto di qualità ed entrare nel “giro” europeo dalla porta principale. Firmammo con la storica NOISE Records (che a suo tempo aveva lanciato Kreator, Celtic Frost, Voivod e tanti altri) per un progetto che era “avanti”, nel senso che prevedeva un negozio online da cui scaricare a pagamento mp3. La stampa del CD vera e propria sarebbe avvenuta in un secondo momento. L’idea arrivava in anticipo per l’Europa, ma incredibilmente in tempo con gli Stati Uniti, dove iTunes muoveva i primissimi passi. Purtroppo però, quel treno si rivelò un miraggio; la Sanctuary comprò la Noise e tagliò in toto il progetto. Il danno per noi fu incalcolabile! Un master praticamente già pubblicato online in mano e nessuna label disposta a stamparcelo. La Sekhmet fu un’insperata ancora di salvezza, ma “Art Bleeds” usciva con 2 anni di ritardo. Un tempo che non avremmo recuperato mai più. “La tecnica è nulla senza controllo”. Siete d’accordo? Raff: Decisamente si! É un po’ la nostra filosofia. La tecnica senza controllo è nulla, fine a se stessa. La tecnica deve permetterti di mettere in pratica le tue idee nel miglior modo possibile e con la giusta attitudine. Non deve essere una vetrina edonista del proprio ego, che alla lunga annoia anche. Joe: Mi è capitato di discutere, anche animatamente, con sostenitori del noise o post rock/punk, di questo argomento. Un mio caro amico, bassista dei Logan, sosteneva che la tecnica sarebbe un limite che non ti permette di sperimentare davvero, e ricercare le sonorità più recondite del tuo strumento. La mia obiezione era che non puoi esprimere un linguaggio se non conosci l’alfabeto prima, e le regole morfologiche e grammaticali poi. Per me la tecnica non è un limite, ma un mezzo che ti permette di approfondire tutte le potenzialità del tuo strumento. Naturalmente è importante che non sia fine a se stessa, cioè che non resti puro esercizio razionale. L’istinto nell'espressione artistica è fondamentale per la creazione e forse quel mio amico si riferiva a questo aspetto. Se l’istinto segue i dettami della ragione il risultato può essere sorprendente. Col tempo, dato che era una trappola in cui siamo caduti parecchie volte, abbiamo imparato a dosare tecnica e sentimento, ragione e istinto nella nostra musica in modo da valorizzarli entrambi. La domanda ha a che fare con “Graveyard Of Angels” che molti ritengono troppo “tecnico” ... Raff: Credo che GRAVEYARD OF ANGELS sia uno dei nostri migliori lavori perché siamo riusciti ad equilibrare struttura, sound , tecnica e melodia. E’ un disco che va ascoltato più volte, si scopriranno sempre nuovi particolari negli arrangiamenti. Joe: Già, per questo abbiamo optato per un disco corto e quindi meno dispersivo. Puoi ascoltarlo quante volte vuoi, non ti stancherà mai. Il guaio dell’avvento degli MP3, voluto dalle majors, non dagli scaricatori folli, è che la musica è diventata usa e getta. Scaricare un MP3 equivale già a consumarlo, rendendo l’ascolto del tutto superfluo, quasi fosse l’atto stesso del download, quello principale. Temo che alcuni cadano nella trappola di considerare un album difficile o troppo cervellotico solo perché non hanno tempo e voglia di riascoltarlo con attenzione. Vedi, le majors hanno pensato di puntare tutto sulla quantità, non sulla qualità, per cui, avanti con il download, scaricato un brano, avanti un altro! A loro costa meno, ma non avevano fatto i conti con la rete! Ad ogni modo bands come noi non ci perdono tanto per i download illegali, quanto proprio per l’abitudine delle nuove generazioni alla musica usa e getta. I nostri brani te li devi ascoltare decine di volte! I testi di “Art Bleeds” erano ancora leggermente ancorati ad un certo tipo di estremismo? Joe: Beh, anche per i testi vale lo stesso discorso fatto per la musica. Al tempo avevo una conoscenza della lingua inglese a dir poco scolastica e non volevo abbandonare del tutto i cliché dell’immaginario death metal. Frequentavo i primi anni di università e fu una docente di madrelingua inglese ad aprirmi la mente alla poesia romantica di Yeats ed ai romanzi di Virginia Woolf e Joyce. Mi sentivo attratto da un certo uso della parola poetica, ma non sapevo ancora maneggiare tutto quel ben di dio! Cosa rappresentano brani come “Anticlimax” e “”Comet... and Her Trail of Spiritual Dust”? Joe: “Art Bleeds” fu una vera iniziazione per noi. Non avevamo mai registrato in maniera così professionale un full length. I Fear Studios avevano aperto da poco, ma Gabry e Paso, che al tempo lavoravano insieme, avevano già le idee molto più chiare di noi fortunatamente. Registrammo in due sessioni, una prenatalizia, immersi nella nebbia dei litorali ravennati, quindi molto crepuscolare e decadente, la seconda post vacanze, tutta psichedelica! Fummo ospitati da un famoso designer (all'epoca sulla cresta dell’onda per la realizzazione di accendini da cucina di ambigua forma) nella sua cascina a pochi km dai Fear. Questa cascina in realtà era una specie di “comune” dimenticata lì per caso dagli anni 70! In una sala tutta dipinta con colori fluo, si poteva utilizzare la strumentazione per un vero live, per cui alla fine della giornata in studio, ci mettevamo a suonare per ore. Ricordo una versione improvvisata di “Purple Haze” di Jimi Hendrix durata forse una cinquantina di minuti! Fu un’esperienza didattica ed indimenticabile. “Anticlimax” è ancora un nostro cavallo di battaglia e non è esclusa una sua riproposizione in chiave live. “Anticlimax” rappresenta non tanto la crisi dell’artista, che non riesce ad esprimersi, quanto l’ambizione ancestrale di creare l’opera d’arte ultima, quella oltre la quale non ci si può spingere… ovvero, la morte. “Comet” invece mi fu ispirata da una cometa che passava in quel periodo. L’accomunai ad una donna che aveva incrociato la mia strada per un giorno. Come avete conosciuto Adriano, il cantante di “Skymorphosis” e come vi ci trovavate? Joe: Francamente non ricordo il momento preciso ed i modi, credo forse rispondendo ad un annuncio online. Come per tutti coloro che hanno avuto a che fare con noi, non fu facile per Adry adattarsi ai nostri pezzi pieni di cambi di tempo e di parole difficili. Nei primi anni di permanenza con noi si è sbattuto molto e poco prima di registrare “Skymorphosys” aveva probabilmente raggiunto il suo picco di forma. Adry aveva una voce caratteristica che ben si adattava ad alcune canzoni, meno ad altre. Lui comunque ce l’ha sempre messa tutta per cantare come meritavano i pezzi. Con lui abbiamo condiviso l’esperienza più bella e professionale a cui abbiano mai partecipato i Gory Blister, ovvero il tour con i Sadus ed i Darkane del 2006, dunque resta parte della nostra esperienza. Cosa si cela dietro il concept dell’album? Joe: Premetto che l’osservazione del cielo è una cosa che mi ha sempre affascinato, fin da piccolo. Scrivendo i testi di Art Bleeds avevo un po’ sperimentato, un po’ intuito alcune potenzialità della scrittura, così, in Skymorphosys decisi di metterci del mio. Il presupposto è che non condivido sotto nessun aspetto il mondo che mi circonda. Puoi esprimere il tuo rifiuto direttamente, cioè scrivendo testi contro l’autorità ed il potere, oppure puoi opporre una realtà alternativa costruita con altre idee. Puoi mettere in campo la tua visione del mondo decostruendo poeticamente un mondo reale per costruirne uno con le tue regole. Per me il cielo poteva rappresentare questo campo di battaglia. E lo divenne a seguito di una cocente delusione che una notte mi fece apparire il cielo diverso da come lo avevo sempre osservato… drammaticamente diverso. Perciò le stelle cadenti erano asteroidi che commettevano suicidio, o l’eclisse lunare il preludio all’invasione di alieni voracissimi. Addirittura l’universo diventava la tela sporcata di nero di un’artista imbranato che vi aveva rovesciato l’inchiostro maldestramente, rovinando tutto. E chi ci dice che quello che crediamo il nostro mondo non sia effettivamente lo sbaglio di un dio fallace? E’ un album dalle mille sonorità: synths, intermezzi, parti acustiche ... come mai? Joe: Non è che in un nostro disco puoi dire “ah, questo riff è dei Pestilence, quest’arrangiamento è dei Cannibal…” ecc. Quando scriviamo i nuovi brani non ce lo poniamo neanche il problema. Per lo meno non a questo livello; le influenze musicali intervengono a livello inconscio ben prima che tu ti metta lì dietro la batteria a pensare “e mo sto riff incasinatissimo come lo arrangio?”. Le bands che hanno forgiato il nostro mood ci hanno lasciato delle tracce dentro, che ogni tanto ed in qualche modo vengono fuori. In Skymorphosys contò molto la scelta di non avvalorare le tesi di chi voleva farci passare per i Death italiani. Non che la cosa ci dispiacesse particolarmente, tant’è che ci abbiamo piazzato la cover di 1000eyes, ma volevamo essere i Gory Blister prima di tutto. Probabilmente se avessimo fatto un disco alla Death ci saremmo esposti ad un duro confronto ed a molte critiche. Forse avremmo perso la nostra bussola artistica. Perciò abbiamo ad ogni passo cercato di rendere gli arrangiamenti più personali possibile. In Skymorphosys c’è tutto il nostro background musicale allo stesso tempo, mai una band in particolare. Possiamo considerarlo come un concept? Anche “Cognitive Sinergy” ha dei curiosi sottotitoli. Joe: Skymorphosys è un concept, nella misura in cui esplora delle sfaccettature dell’universo. Si tratta di un cuore (di tenebra, per dirla alla Conrad) che guarda al cielo per trovare conforto ed invece vi trova solo incubi. A monte, l’idea dei sottotitoli nasceva perché spesso il titolo non veniva cantato nel testo e dunque per identificare meglio la canzone usavo l’espediente del sottotitolo. Poi la cosa è diventata più sottile. Il sottotitolo amplia leggermente il tema lanciato dal titolo, spesso criptico, tentando in qualche modo di forzare l’interpretazione del lettore. Una sorta di tentativo dell’autore di sottrarsi alla reinterpretazione data dallo scontro/incontro con fruitore e mondo esterno. Tentativo destinato a fallire. Perché dedicare un brano a Sarah Kane (scrittrice e drammaturga britannica)? Joe: Ho dedicato qualche anno della mia vita allo studio dei testi di Sarah Kane, mancando tragicamente l’incontro fisico, visto che lei si suicidava un mesetto prima del mio ventinovesimo compleanno… eravamo coetanei. Leggendo decine e decine di volte ogni sua parola mi sono reso conto di che persona avevo di fronte, di quanta sensibilità e profondità era dotata e di quale spessore culturale ed umano! Probabilmente non ha retto la sfida artistica che le si era posta davanti e che ha infatti portato alle estreme conseguenze… incrociare le parallele vita ed arte in un punto all'infinito; come? Sperimentando il limite fisico della parola e del teatro, su se stessa. Direi che c’è riuscita tragicamente! Perciò avevo deciso di dedicarle un pezzo. Quando si trattava di scrivere il testo di questo pezzo già sui generis per noi, sai non tanto inclini ad arpeggini vari, mi sono accorto che una parte del testo 4:48 Psychosis di Sarah calzava perfettamente sulla musica! Perciò decisi di utilizzarlo senza modifiche. Una cosa strana accadde in studio quando ultimavamo proprio I Shall Hang Myself; l’ultima sera in cui editavamo le batterie, l’ultimo pezzo era proprio quello. Una volta “chiuso”, andai a prendere il mio bel trenino per Milano, bello soddisfatto. Verso la mezzanotte, però, mi telefona il fonico dei Fear dicendomi che tutto l’editing di quel pezzo era misteriosamente sparito da tutti gli hard disk. Per buoni 10 minuti non volevo farmi convincere che non fosse uno scherzo, ma alla fine rifacemmo tutto l’editing al telefono! E fin qui… una coincidenza. Un paio di settimane dopo, appena finito il riascolto di I Shall Hang Myself appena mixata mi squilla il telefono: è Franca del teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino che mi informa che Barbara Nativi, da qualche tempo malata di tumore, è appena morta. Barbara era colei che ha portato per la prima volta Sarah in Italia e che ha curato la regia dei suoi spettacoli. Mi aveva aiutato un sacco nel mio lavoro su Sarah. Mai dedica fu più incredibilmente calzante. I Shall Hang Myself è di Sarah Kane e Barbara Nativi. Quali sono state le date più caratteristiche di supporto a questo vostro secondo opus? Joe: Sicuramente l’ultima del tour coi Sadus, quella a Tilburg. In quel tour abbiamo suonato in posti stupendi e siamo stati trattati da professionisti; alla fine dell’ultima data ho ripensato agli anni di Taranto, a tutti coloro che non hanno creduto in noi. Avevamo fatto una cosa straordinaria dopo tutto. Abbiamo anche avuto modo di conoscere dei professionisti seri e siamo cresciuti umanamente con loro. Abbiamo condiviso lo spazio di un tour bus con altre due bands, due tecnici ed un tour manager per 18 giorni, abbiamo giocato, suonato, discusso, bevuto. Ho anche tenuto un diario. Spero di ripetere presto un’esperienza così. “Skymorphosis” è un disco legato al concetto di morte. “Graveyard Of Angels” sembra quasi affronti il discorso di una lotta eterna per la salvezza. Puoi spiegarci meglio il concept? Joe: Come spiegavo prima, scrivere è in qualche modo esprimere un giudizio sul mondo esterno, prima ancora che opporvi una propria visione alternativa. Quindi sì, ha anche a che fare con la situazione mondiale odierna. Ho avuto l’ispirazione per questo concept durante un viaggio in India, mentre ero di passaggio a GOA, da cui le iniziali del titolo. L’India è il paese delle contraddizioni, o meglio, della compenetrazione degli opposti, per cui per molti è l’inferno, per molti altri, il paradiso. Ricchezza ed estrema povertà, tecnologia futuristica e tradizioni millenarie, nonché tutte le religioni del mondo occupano le stesse coordinate spazio-temporali. Ma l’aspetto che mi ha colpito di più è stata la quantità di occidentali che in India hanno trovato rifugio. Sono persone che volevano solo essere felici, ma hanno dovuto ammettere l’inattuabilità del loro “progetto” nel mondo occidentale. Una scelta difficile e facile, coraggiosa e codarda… comunque estrema. Quanto coraggio ci vuole per decretare finito e fallito il materialismo occidentale a parole? Nessun coraggio… facile facile. Ma mettere in pratica tale fallimento? E quanta paura fa affrontare comunque la società occidentale e cercare di sopravvivere in essa? Insomma, ci vuole più coraggio a mollare tutto o ad accettare questa situazione? Gli angeli han tentato di costruire un mondo migliore, ma non ce l’hanno fatta, o hanno mollato, non accettando l’invito dell’occidente a sedersi al tavolo del massacro. Perché è sotto i nostri occhi, se mai angeli hanno cercato di salvare l’umanità… hanno mollato. Il disco sembra il vostro più diretto! Joe: La chiave di questo disco è la ponderata lunghezza dei brani e totale. E’ un disco concepito per essere riascoltato. Inoltre la scaletta, che segue stavolta un concept vero e proprio, va magicamente in crescendo, per cui il livello di violenza sonora aumenta con l’incedere delle tracce. Un po’ di fortuna non guasta mai. C’è da dire che durante la composizione dei brani eravamo veramente incazzati. Il fatto di non condividere la società che ti circonda ha il suo effetto benefico nel caso del death metal! Chiarimenti su Domenico, vostro ex-cantante? Joe: Domenico è stato il primo cantante milanese dei Gory Blister, ma lasciò la band una prima volta pochi giorni prima di registrare Art Bleeds: motivo? Aveva un idea tutta sua del disco… stavolta alle registrazioni ci è arrivato. L’avevamo ripreso perché ha sempre avuto una voce devastante, una forza della natura… ma hai presente quando facevamo il verso ad una famosa pubblicità… il talento è nulla senza controllo? Ecco, ci è ricascato qualche mese dopo. In studio ha cantato alla grande e molte take che puoi ascoltare sul disco sono registrazioni uniche, buona la prima! Parlami di “The Descent”. Joe: Uno dei primi brani che abbiamo scritto per questo album, abbiamo tentato di proporla dal vivo anche prima delle registrazioni. Il primo cambio di tempo, nonostante sia dallo speed al cadenzato è devastante perché è terzinato. Studiato a tavolino, d’accordo, però lo abbiamo anche messo in una posizione inaspettata. Ho scritto il testo durante una influenza in cui pensavo di morire… avevo forse 41 di febbre e vedevo dei piccoli omini che mi guardavano dalle pareti ed altri che tentavano di smontarmi le ginocchia con piccoli martelli e scalpelli. Sono venuti con una specie di veliero spaziale. Mi sembrava di scendere all'inferno! Infatti, appena mi sono ripreso mi sono andato a leggere l’apocalisse di San Giovanni ed ho scritto Shining Hades! Ad ogni modo The Descent è una song molto live, in cui abbiamo messo a frutto i consigli dei Sadus… dal vivo sortisce sempre l’effetto sperato. Quali sono le bands che ricordate con più orgoglio della vostra città d’origine? Joe: Nei tardi 80 eravamo forse 20 metallari, che facevano finta di far casino e passavano per drogati ed adoratori di Satana. Ad ogni modo erano i tempi dei sogni ed elle piccole rivoluzioni quotidiane, come quando entrai in un negozio di dischi che normalmente non vendeva metal e chiesi “vorrei Reign In Blood degli Slayer”… risposta “non ce l’abbiamo!” “ma come, è in vetrina!” Sti deficienti l’avevano messo in vetrina non sapendo cosa fosse ed ad un prezzo più basso del solito! Uno dei dischi che ha fatto la storia! Insomma, c’era ben poco, ma era qualcosa d’importante per noi, come le fanze di Nick Curri e la radio di Angelo La Neve, che porta tuttora’ora avanti una black metal band in quel di Massafra! Sicuramente oggi c’è molto più movimento e tante bands che all’epoca semplicemente non erano nate. Ti cito solamente l’episodio del Metal Fest di Pulsano (TA), un piccolo festival che si teneva qualche anno fa nella piazzetta del paese davanti ad uno sparuto gruppetto di metallari esaltati e vecchiette impaurite affacciate ai balconi in pieno agosto. Bene, da due anni ormai, lo organizzano nel campo sportivo, davanti a qualche centinaio di persone! Una ventina d’anni fa non lo avrei mai immaginato. Che rapporto avete con i vostri strumenti? Raff: La chitarra fa parte della mia vita e ne occupa una parte importante. Non ho molto tempo per esercitarmi, ma suono almeno 1 ora al giorno (escluse le prove con la band), che devo dividere tra esercizi, composizione quando ho qualche idea, e ripetere le songs dato che ho una memoria di merda!...non posso vivere senza suonare, penso alla musica tutto il tempo ed anche quando non ho la chitarra tra le mani penso a come elaborare un riff o migliorare certe tecniche per farle suonare a modo mio ed in modo naturale. Peccato non poterlo fare tutto il giorno! …E con la tecnologia? Com’è cambiato il vostro approccio ad essa? Joe: Dopo le esperienze ai Fear ed i consigli del mitico Gabry, ho comprato triggers e centralina Alesis D4 per la doppia cassa. Mi trovo benissimo. Non hai problemi di soundcheck dal vivo e ti abitui ad avere sempre lo stesso tocco con i piedi. Ma il vero confronto con la tecnologia lo hai in studio; in pratica ti scontri con una macchina che inesorabilmente ti dice che sei fuori tempo! In teoria potresti suonare 4 battute e campionarle all'infinito o fino a che serve, ma io suono tutto. La tecnica che ci consente di ottenere i risultati migliori è scomporre i brani in pezzettini per unità metronomiche (pezzi che mantengono lo stesso metronomo) che vanno dai 4 secondi ai 30 circa nei nostri pezzi. Quindi riesco a suonarli in modo quasi perfetto e non c’è bisogno di correggere errori successivamente. Non sarai preciso quanto la macchina, ma in registrazione resterà la tua intenzione “umana” nel suonare. “Earth-Sick” è il disco di rottura, per vari motivi. Ritornate un trio (anche se ad oggi avete un nuovo bassista) con un nuovo contratto, in più musicalmente siete la degna e più logica evoluzione dei due precedenti album. Cosa rappresenta per voi questo ritorno dopo tre anni? Joe: Non direi che è un disco di rottura. Abbiamo evoluto ulteriormente il nostro sound, che è una conseguenza del nostro modo di lavorare in studio. Le strutture delle songs sono più semplici che in passato e gli arrangiamenti sono puliti, soprattutto in funzione del cantato. Ne guadagna la brutalità, ma anche la melodia. Credo che una canzone come Dominant GenEthics esprima il concetto più di tante parole. In generale pensiamo sempre di più al “live” quando componiamo. La bussola indica sempre death metal, ma sfido chiunque a dire che i nostri 4 album si possano confondere fra loro. Tanti anni fa per comporre un brano ci mettevamo dei mesi, un po’ perché non avevamo un target chiaro e un po’ perché pretendevamo di rendere tecnico qualsiasi passaggio. Oggi riusciamo a comporre dei buoni brani in qualche settimana e credo che di passi avanti ne abbiamo fatti eccome. Mi hai parlato di una tua passione, che anche in questo disco sembra manifestarsi sotto forma di concept. Il titolo in tal caso è molto chiaro. Di cosa parlano più precisamente i testi questa volta? Joe: Questa volta non si tratta di un concept vero e proprio come nel caso di GOA, ma c’è comunque un fil rouge che lega i testi. Questa sorta di tema è che l’umanità è il vero cancro di questo pianeta e si comporta esattamente come il male incurabile fa quando attacca un organo vitale. Il pianeta però, a differenza del corpo umano, ha delle armi devastanti contro questa malattia. Ci scatena contro apocalissi di ogni tipo, dalle malattie fisiche come l’AIDS alla depressione psicologica, dalle catastrofi climatiche ai deliri religiosi. Tutto concorre alla prossima estinzione della razza umana a tutto beneficio del pianeta Terra, che ci sopravviverà, possiamo starne certi. Stavolta avete chiamato in causa addirittura Karl Sanders. Com'è nata la collaborazione? Joe: Qualche anno fa io e Raff andammo a vedere i Nile a Reggio Emilia e dato che è una band che nel corso degli anni ci ha a dir poco conquistato, avevamo premeditato l’incontro con Karl. Non appena ne abbiamo avuto la possibilità lo abbiamo avvicinato e l’incontro è stato cordialissimo. La nostra visione del metal e del music biz coincideva alla perfezione e gli abbiamo chiesto se voleva partecipare ai cantati del disco. Incredibilmente la risposta è stata si, con la riserva di dedicare un po’ di tempo all'ascolto dei nostri lavori precedenti. In realtà poi si era offerto di cantare qualcosa in tutti i brani, ma successivi impegni coi Nile non glielo hanno permesso e la collaborazione si è limitata (si fa per dire) a soli due brani. Abbiamo già parlato di label ma non della BakerTeam. Come stanno andando le cose? Joe: Come la Sekhmet in passato, anche la BakerTeam è capitata al momento giusto ed anche al posto giusto, visto che si trova proprio qui a Milano. Abbiamo avuto modo di conoscere i ragazzi da vicino, visto il loro certosino modo di lavorare e tutto è venuto da sé. Anche con loro si è verificata una totale coincidenza di vedute artistiche nonché manageriali. Attualmente stiamo avendo i primi riscontri di vendite, che non sono certo esaltanti, ma relativamente alle vendite di bands ben più blasonate di noi, confermeranno la dignità del nostro impegno e del nostro lavoro. Recentemente si è letto in giro di un vostro quinto album con otto brani già pronti, “dal sapore più oscuro, raffinato, e con nuove soluzioni armoniche”. Cosa dobbiamo aspettarci dalla vostra nuova release? Qualche piccola anteprima? Joe: Vero, il disco è teoricamente pronto. Stiamo lavorando sulle ultime rifiniture di alcune tracce e sul riarrangiamento di una in particolare. Quando scrivi per circa un anno è fisiologico che fra la prima e l’ultima song ci sia una certa differenza stilistica. Dunque stiamo lavorando per rendere tutti i pezzi omogenei, nella loro irrimediabile diversità naturalmente. Ancora una volta è inutile sottolineare che restiamo death metal 101%. Tuttavia abbiamo lavorato molto più che in passato sui ritornelli delle canzoni, quei passaggi in cui il pezzo raggiunge il picco di interesse ed intensità. Personalmente ho lavorato con John (lavoro non del tutto ultimato) sulla cantabilità dei ritornelli. Per quanto riguarda le armonie, qui sta l’aspetto sperimentale dei nuovi brani. Alcuni passaggi saranno scuri e melodici, a volte lenti, ma dissonanti. Ma vi sto dicendo troppo! Anche perché le vere registrazioni non sono previste prima di febbraio 2014 ed in studio possono ancora cambiare molte cose!

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