ROOT: THE TEMPLE IN THE UNDERWORLD [REISSUE]
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23/08/2009Prima di ascoltarli mi sono deciso a voler scrivere con qualche punto in più a favore della band: ok, detto fatto. Il motivo è da ritrovare nel momento in cui ho visionato i promo, visti gli artwork orrendi, mi sono allontanato dai tipici pregiudizi, e mi sono promesso di lasciarli da parte. Dalle prime note dell'opener, tutto sembra fatto bene. Un ritmo marziale, quasi una litania, che si spezza al secondo minuto con una ritmica tipicamente vecchia scuola: il brano si risolve in poche parole, ed un buon crescendo. Il vero disco comincia intorno al decimo minuto, quando la title track fa la sua gloriosa entrata, sulla falsariga della precedente. Ottimo cantato quello di Jirí Walter, uno screaming che corrode, preciso nella scansione di ogni dannata parola, quasi maniacale. Per tutta la sua durata, c'è spazio per brani cadenzati, come la lunga "The Wall", che ha l'unica pecca di avere come parte migliore quella dal quinto minuto in poi (e il brano ne dura otto). Se infatti, la band riuscisse a insistere di più su questi tempi, come la citata song dimostra, magari la musica dei Root risulterebbe più gustosa per i palati di metal estremo. Ma è forse una caratteristica principale questa (d'altronde io li conosco per due soli dischi), atmosfera, pochi momenti tirati e chitarre che giocano a sostenere il buon lavoro del cantante, sempre una spanna in rilievo rispetto il resto. Echi dei Bathory periodo viking (basta pensare ai semplicissimi cori di "The Old Ones" e capire chi ha fatto scuola con ciò), e accelerazioni che mancano però del mordente giusto. Gradito finale con "My Name...", inaspettato modo di cantare la morte, per una band come questi pazzi cechi.
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