SONISPHERE FESTIVAL 2016
Sonisphere, il festival dalle mille polemiche.
A mente fredda, dopo la botta emotiva dovuta alla Storia che ti passa davanti, mi viene da dire: "peccato per i Bullet For My Valentine!". Non è assolutamente in dubbio la grandezza dei Saxon o degli Anthrax, semplicemente facendoli suonare dopo di loro gli organizzatori avevano pensato di spezzare il mood di metallo classico con qualcosa di più moderno. Che poi tanto moderno oramai non è perché i dischi sono cinque e gli anni di carriera per i tanto odiati BFMV sono dieci. I fatti però sono questi: forfait a pochi giorni dal festival e motivazione non chiara. In ogni caso, armati di pazienza e ben predisposti verso le lunghe attese, si va a esportare il verbo dei Vade Aratro, che riscuote successo verso alcuni fan francesi in coda per il treno del ritorno.
Lo sciopero ferroviario non fa vittime, puntualmente il sole di metà mattinata inizia a farsi sentire, ma è proprio nel momento peggiore che fortunatamente si aprono i cancelli. Il palco è quello delle grandi occasioni, c'è anche il golden pit, per quelli che preferiscono stazionare in un'area più prossima al palco e con meno calca, magari arrivando giusto per gli Iron Maiden. Per quel prezzo, però (100 euro, 20 in più del regular ticket), un solo gruppo è pochino, no? D'altronde è sulla carta il Sonisphere, un festival vero e proprio, non gli Iron Maiden con dei gruppi spalla.
Forse siamo in pochi ad attendere con particolare curiosità l'esibizione degli A Perfect Day, ingiustamente piazzati in apertura e gambizzati da suoni orrendi, ma autori di una performance che nonostante tutto è buona e piena di passione, il che fa mangiare le unghie per quello che avrebbe potuto essere e invece non è stato. Una scelta molto discutibile piazzarli in apertura e prima di due formazioni (quelle immediatamente successive) che al cospetto dei due full length degli APD svaniscono con un solo EP a testa. Ma si sa, non conta solo la bravura, in certi casi il cognome è determinante. Grande padronanza degli strumenti e ottime melodie, specie alla voce, per questo gruppo che -partito come una sorta di costola dei Labyrinth- si è velocemente imposto nel panorama italiano. Qualcosa di simile a degli Alter Bridge con una vena più tecnica: si immolano al dio del metal per la buona riuscita del festival.
E veniamo alle pietre dello scandalo. In un articolo di qualche tempo fa mi esponevo a favore del Sonisphere, oggi devo ricredermi a causa della presenza di due formazioni, supporter dell'intero tour dei Maiden, che evidentemente erano da includere nel bill senza possibilità di scelta. I Wild Lies sono il gruppo del figlio bassista di Adrian Smith. Il cantante si esibisce con tenuta total black quasi invernale sprezzante dell'afa assassina delle due di pomeriggio, ma a parte questo le note della formazione inglese non colpiscono. Si tratta di un post grunge senza infamia e senza lode, privo di spunti degni di interesse. Suonano bene e riempiono la loro mezz'ora con discreta professionalità, bisogna dirlo. Non fanno nulla per scrollarsi di dosso l'etichetta di quelli che sono lì per grazia ricevuta. Come per magia il sound migliora, e questo li aiuta non poco. Con le stesse premesse degli APD sarebbero volati i fischi, soprattutto per il cantante dalla voce nasale e costretto a utilizzare già dai primi minuti il trucco del microfono allontanato per mascherare le note più alte mancate. Nome destinato a rimanere minore.
Nei The Raven Age invece suona alla chitarra il figlio di Steve Harris. Qui le cose vanno un po' meglio proprio per il discorso della varietà dei generi. Molti li applaudono, sembrano una versione pulita dei Bullet For My Valentine. Su tutti si fanno notare il batterista molto vistoso nelle evoluzioni tecniche - non indispensabili, in realtà - e cantante decisamente espressivo. In questo caso, senza voler essere cattivi, assistiamo a una esibizione che giustifica la presenza nel festival, ma al massimo in prima posizione.
Mentre mi compiaccio per la scelta del punto da cui assistere allo show (a destra del palco, ottimale per ogni evenienza e per l'acustica), ci si prepara a una immersione nelle tamarrate dei Sabaton. Cassa e rullante, tastierine e cori a profusione: ci sono tutti, ma non solo. Il pregiudizio che avevo è distrutto dalla simpatia e dall'ottimo lavoro dei chitarristi. Il divertimento della band è evidente, si ride e si scherza, la reazione del pubblico è esagerata. Forze neanche i Sabaton si aspettavano un'accoglienza del genere suonando alle quattro di pomeriggio. Niente pretese, solo tanta ignorante epicità che culmina alla loro più riuscita hit "Primo Victoria". Tanta interazione col pubblico con un paio di siparietti demenziali, Joakim Broden ribadisce spesso la sua incredulità davanti a tanto calore, e infine regala i suoi occhiali da sole a un fan che aveva inserito il nome dei Sabaton nel logo Ikea. Nonostante mi arrivi troppo spesso nelle orecchie la battutaccia del tipo "perché i Sabaton suonano di domenican?" bisogna dare atto della grande riuscita dello spettacolo. Come volevasi dimostrare, salto qualitativo molto netto: si inizia a fare sul serio.
Foto di Vito E. La Banca
Se gli svedesi possono essere definiti come la bella storia del pomeriggio, dal gruppo successivo è una continua immersione nella Storia con la lettera maiuscola, che condivide lo stesso destino. Come avrebbe detto Dickinson qualche ora dopo: "tutti gli imperi sono destinati a cadere". Nel nostro caso tutti i gruppi prima o poi ci lasciano, e negli anni finali della loro vita sono accomunati da un grosso dilemma nelle esibizioni dal vivo: riprodurre gli intramontabili cavalli di battaglia in modo stentato, approssimativo, non propriamente degno della loro importanza storica, o puntare sui pezzi più recenti, dalla caratura artistica molto più modesta, ma modellati sulle capacità dei sessantenni che li stanno suonando? Insomma, ci sta l'emotività del momento, ma poi fermiamoci a pensare per cosa ci siamo emozionati, se per l'esecutore o per l'opera eseguita. Le due cose non sempre coincidono.
Questa è l'impressione avuta con tutti e tre i gruppi di punta, una sensazione confermata ogni volta che si cambia registro e repertorio. I Saxon vengono per primi. Il passaggio è brusco da "Battering Ram" e Sacrifice" (soprattutto quest'ultima cantata benissimo), alle fondamentali "Wheels Of Steel", "Princess Of The Night" e via dicendo, perché Biff Byford è della classe '51 e all'occorrenza ruggisce ancora, sì ma per essere un ultrasessantenne, non in assoluto. Grandi emozioni comunque, dei cantanti è quello che riesce meglio a leggere la situazione, ovvero fan in visibilio per i pezzi vecchi e tiepidi a ragion veduta per i nuovi. Ecco perché la sua mossa di strappare e masticare la scaletta ha un significato molto forte, invitando poi a proporre le canzoni da suonare. La band ci dà quello che vogliamo, il brivido scappa sempre su "747" e "Denim and Leather", ma sono riflessi incondizionati dovuti all'amore per certa musica che la vecchiaia e la morte non potranno cancellare. Menzione particolare anche per Paul Quinn e Nigel Glockler, che tengono botta molto bene, capitalizzando al massimo gli stessi pezzi ripudiati durante la svolta più soft della seconda metà degli anni Ottanta.
Stesso discorso per gli Anthrax, unici a entrare in scena con un ritardo di un paio di minuti, per il resto running order impeccabile, segno che se si vuole la puntualità non è un'utopia. Questione anche di rispetto, ma non voglio divagare. Vedere all'opera uno dei migliori chitarristi ritmici del metal fa sempre una certa impressione. Sì, Scott Ian ci prende tutti per il collo, e con una mulinata di riff il pubblico è k.o. Almeno, chi è cresciuto con certi dischi non può rimanere impassibile di fronte al perpetuarsi della perfezione. Sto parlando degli estratti da 'Among The Living', purtroppo solo due. "Caught In A Mosh" e "Indians" sono l'apice dello show degli Anthrax, che con il nuovo (per me che li avevo visti nel 2011) chitarrista Johnatan Donais degli Shadows Fall aggiungono un bel po' di tecnica negli assoli e un tocco moderno, ma perdono un po' a causa di John Dette che sostituisce Charlie Benante. Due sole canzoni sono da Olimpo del metal, poi la solita sgrillettata di "Got The Time", "Madhouse" e tanta mediocrità. 'For All Kings' è imbarazzante, 'Worship Music' idem, e scegliere quattro pezzi da questi su una scaletta di un'ora è un crimine contro l'umanità, o almeno di quella grossa fetta dell'umanità non riesce a concepire gli Anthrax dal ritorno di Belladonna. Lui fa il possibile, anzi, si comporta in modo molto professionale e consono all'evento, canta meglio che nel tour con i Big 4, ma ci sono momenti in cui - molto francamente - non ce la fa. Non è il microfono che non funziona, non è l'audio che per molti è pessimo, facciamocene una ragione, è così anche per i Maiden poco dopo. Sta all'audience poi constatare la cosa, se del caso giustificarla o criticarla senza pietà. Tirando le somme, distanza abissale percepibile immediatamente tra un pezzo e l'altro.
Si inizia a respirare l'aria di attesa, mancano solo tre quarti d'ora e si ammazza il tempo chiacchierando amabilmente dei Whitesnake con i vicini, condividiamo la stessa terra in ogni orifizio scoperto, Coverdale solo può darci speranza. Si spengono le luci. La solita registrazione di "Doctor Doctor" introduce gli Iron Maiden, che non cambieranno di una virgola la scaletta rispetto alle altre date. Vedere Bruce saltare, dimenarsi e impegnarsi nonostante l'ugola non sia quella di una volta è edificante. Questo signore aveva un cancro, ha avuto la fortuna di sconfiggerlo e ora è tornato a cantare nella più famosa band metal del mondo. Chapeau. Regge per questo molto meglio sui pezzi del nuovo disco. Ben sei estratti da 'The Book Of Souls', e senza ripetere il discorso sulla tenuta dei musicisti su questi brani, "If Eternity Should Fail" è una delle loro migliori opener sia su disco che dal vivo, "Speed Of Light" è anche meglio che in studio anche grazie a Bruce che la canta benissimo e infine - dimenticando i mattonazzi di "Tears Of A Clown" e soprattutto "The Red And The Black"- acquista una valore nuovo e inedito la traccia omonima del disco, percepita da molti come l'espressione migliore degli ultimi Maiden. Janick Gers è proprio come si sente dire: utile solo a lottare contro Eddy. Non aggiunge niente, abita il palco e lancia in aria la chitarra. A proposito, la scenografia proiettata a tema Maya e le luci spettacolari, anche questo è intrattenimento, anche questo vale il prezzo del biglietto. C'è fastidio per i troppi che si scatenano durante la piaga "Fear Of The Dark" e soprattutto durante la stucchevole "Blood Brothers" (che potremmo ribattezzare per l'occasione "volemose bene"), mentre rifiatano (!!!) con "Powerslave". Tutto va come previsto, prendete uno dei millemila dvd live dei Nostri post reunion e vedrete praticamente le stesse cose, solo deteriorate a causa del tempo che scorre. The sands of time are running low, tanto lentamente che un concerto di livello potrebbe uscire per altri due o tre anni forse. "Iron Maiden" però sono almeno dieci anni che non riescono a farla come Eddie comanda. Pace. Commuoversi con "Waster Years" è preventivato e accade puntualmente, è il pezzo della vita, ma curiosamente la lacrimuccia scende non guardando la band sul palco, ma ai tanti come me che condividono quella stessa ossessione, che posso rintracciare con la coda dell'occhio in quelli con la maglietta richiamante 'Somewhere In Time'.
Tutti uniti sotto un'unica bandiera, è questo il punto di forza degli Iron Maiden, anche se c'è il sentore che piano piano la nostalgia stia cominciando a prevalere sull'effettivo valore messo in campo.
Foto di Vito E. La Banca
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